Reggae, trecce e marijuana? Bob Marley era molto di più

 06/02/1945 • Oggi il grande artista giamaicano avrebbe compiuto 76 anni. Intervista a Federico Traversa, che lo racconta in un libro

Federico Pani

Quest’anno ricorrono i quarant’anni dalla scomparsa di Bob Marley, morto a Miami nel 1981. Se un tumore non lo avesse stroncato, proprio oggi avrebbe compiuto 76 anni. Per alcuni il ricordo di Marley è ancora vivido, per altri ciò che resta di lui è più un’icona o, peggio, una semplice moda, che significa una particolare acconciatura (i dreadlocks), la musica reggae e anche il consumo di marijuana.
Per ricordare e rendere omaggio alla figura artistica e umana di Marley, abbiamo contattato Federico Traversa, che è uno dei maggiori esperti dell’argomento in Italia. È autore del libro “Bob Marley: in this life. Viaggio attraverso le parole del mito” (di Chinaski Edizioni, pubblicato con lo pseudonimo di T.S. Sandman), che è giudicata una delle pubblicazione più complete sul cantante giamaicano e ha parlato approfonditamente di Marley nel libro Rock is Dead – Il Libro Nero sui Misteri della Musica (scritto insieme ad Episch Porzioni ed edito da Il Castello Editore), da cui è tratto l’omonimo programma radiofonico in onda da sei stagioni su Radio Popolare.
Il Marley che conosciamo un po’ tutti è molto diverso da quello che conosce un esperto come lei?
«Il Marley che è arrivato a noi – al pubblico nordamericano ed europeo intendo – è soprattutto quello del periodo con la casa discografica Island, che va dall’album Catch a Fire fino ad Uprising. È un Marley, diciamo così, leggermente annacquato per quanto sempre immenso. Fu proprio il fondatore della Island, l’inglese Chris Blackwell, che a partire dal 1973 cominciò a promuovere la musica di Marley come si faceva allora con le rockstar, tra concerti, album veri e propri e copertine di riviste. Fino a quel momento, alle nostre latitudini, il reggae lo si poteva trovare solo in qualche compilation estiva o nelle raccolte di musica caraibica. Quelli della Island, dicevo, sono gli album che contengono le canzoni che quasi tutti conoscono: Buffalo soldiers, No woman, no cry o Redemption Song. Per tornare al reggae più roots, bisogna risalire invece a qualche anno prima, quando il produttore di Marley era il suo conterraneo Lee Perry; sto pensando a dischi come Soul rebel o Soul Revolution. C’è da dire però che, anche quando ebbe successo, Marley non tradì mai il messaggio di fondo della sua musica, profondamente legato alla religione rastafariana».
Di che cosa si tratta?
«Pochi sanno che l’origine del rastafarianesimo si deve al sindacalista e scrittore giamaicano Marcus Garvey (1887-1940), fondatore di Unia, un’associazione nata per fornire istruzione alla popolazione di origine africana sparsa nel mondo. Fu proprio attorno a quest’associazione che nacque un vero e proprio movimento religioso, mirante a riunire tutto il popolo di origine africana. L’obiettivo era quello di farlo tornare in pieno possesso della sua terra natia, allora ancora in larga parte controllata dall’Europa. Garvey era un personaggio eccentrico e si comportava volentieri da predicatore. Sosteneva, infatti, che il primo re nero che fosse stato incoronato in Africa, sarebbe stato il nuovo messia. Il caso volle che, nel 1930, venne eletto re d’Etiopia Hailé Selassié, il quale veniva chiamato Ras Tafari; in aggiunta, era l’unico re libero in quel momento nell’intero continente africano. In Giamaica la cosa venne presa molto sul serio e Ras Tafari diventò, da allora, il simbolico messia della religione».
Perché questa religione fu così importante per Bob Marley?
«Perché Marley la abbracciò, facendola diventare lo sfondo naturale della sua musica. A parte l’uso rituale della marijuana (su cui si ironizza spesso, ma al pari del vino per i cristiani è da considerarsi in tutto e per tutto un sacramento), il rastafarianesimo predicava la lotta per i propri diritti, per l’indipendenza personale e per un rapporto di equilibrio tra l’uomo e la natura; i rasta erano fieri oppositori morali dell’eccesso, così come dell’occidente consumista e capitalista, chiamato “Babylon” (la religione, peraltro, intrattiene singolari aspetti sincretici con la Bibbia). Bob Marley dedicò la sua vita a questa missione di redenzione: la sua musica divenne un potente strumento di emancipazione delle coscienze (“alzati, combatti per i tuoi diritti”, canta in Get up, Stand up). Non lo fece mai per i soldi, tantomeno per il successo: nel farlo, era animato, piuttosto, da un fervore religioso. Nel successo di Marley, del resto, c’è a mio avviso davvero qualcosa di messianico: quante possibilità poteva avere un povero orfano cresciuto in un angolo remoto del pianeta di diventare l’artista più conosciuto al mondo? Già, perché se qui in occidente fatichiamo un po’ ad accettarlo, basta andare nel resto del mondo per rendersene conto: non esiste artista musicale più famoso di lui».
Oggi la musica sembra una cassa di risonanza dell’individualismo, nulla di più distante dall’idea che ne aveva Marley. È così?
«Bob Marley cantava: “emancipatevi dalla schiavitù mentale” (è la bellissima Redemption Song, ndr). Nella sua idea, liberarsi da questa schiavitù significava aprire la propria mente e scoprire che gli esseri umani sono una cosa sola, un solo cuore, tutti figli della stessa terra. Da quest’idea l’empatia scaturisce naturalmente. Se la visione invece si restringe solo su se stessi, sul proprio ego, allora è naturale parlare o cantare soltanto delle piccole cose che ci riguardano. Marley, al contrario, ha cercato di parlare davvero alle coscienze di tutti. Lo ha fatto sullo sfondo di una credenza religiosa, ma con in testa ben chiara anche una missione sociale. Sapeva bene cosa voleva dire essere e stare tra gli ultimi: era nato in un villaggio sperduto in Giamaica e si era poi trasferito nel quartiere di Trenchtown a Kingston, un posto di lamiere accatastate, strade impolverate e delinquenza».
Dove affondano le radici della musica di Marley?
«La Giamaica era musicalmente molto influenzata dagli Stati Uniti, da cui si riuscivano a captare molti programmi radiofonici. I giamaicani ascoltavano prevalentemente la musica nera, ad esempio i The Temptations, Tina Turner e in generale i dischi della Motown. I musicisti locali incrociarono queste musiche con alcune sonorità tradizionali, come il calypso. Velocizzando il tutto nacque lo ska. Nel 1966 ci fu in Giamaica un’estate particolarmente calda: lo ska era diventato troppo faticoso da ballare, con quelle temperature. La musica tornò allora a rallentarsi; si decise anche di levare i fiati e mettere bene in evidenza i bassi e la linea della tastiera. Nacque così il rocksteady, i cui testi già cominciavano a trattare tematiche socialmente più impegnate. Quando il ritmo fu velocizzato giusto un po’ in levare sulla terza battuta nacque il reggae».
Che tipo di uomo era Bob Marley?
«Parlava poco ed era molto sicuro di sé. Era una persona che aveva dovuto farcela praticamente da solo nella vita: suo padre lo abbandonò da piccolo poi, a cinque anni, si rifece vivo e lo portò in città con la scusa di farlo andare a scuola ma invece lo mandò a fare da badante a una anziana diabetica prima che la madre se ne accorgesse e lo riportasse in campagna. Da più grande, Bob ritornò in città con la madre, che però se ne andò presto, lasciandolo in una situazione piuttosto strana, anche se non troppo per il costume giamaicano: il piccolo Bob conviveva con quello che era stato, per un certo periodo, il nuovo compagno della madre e sua moglie (si trattava di un uomo già sposato). In casa, va da sé, fu sempre trattato peggio dei figli naturali della coppia.
Era un uomo a cui piaceva divertirsi; amava molto le donne e l’amore e, per certi versi, il suo rapporto con il sesso femminile era in linea con il machismo culturale caraibico. Le donne, però, venivano sempre trattate con rispetto. Marley tradì spessissimo la moglie Rita, la quale però, a sua volta, ebbe due figlie che non erano di Bob, la seconda quando i due già erano sposati. Per capire che tipo di uomo fosse Marley, basta dire che si propose ben volentieri di riconoscere quella bambina, in modo che potesse occuparsi economicamente anche di lei. Come mi hanno raccontato i suoi figli, c’erano sempre interminabili file di persone fuori casa di Bob, il quale le faceva entrare e dava soldi a tutti. È impressionante vedere quante persone a Kingston raccontino di aver potuto studiare o di avere fatto studiare i propri figli proprio grazie alla generosità di Marley.
Non c’è mai stato un artista capace di intrecciare così tante cose, nella musica e nei suoi contenuti, così capace di toccare tanti cuori. A volte, mi viene perfino da pensare che, forse, un qualche dio lo abbia scelto per diffondere nel mondo il suo messaggio».

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