13/3/1821 • La concesse Carlo Alberto dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I, ma il legittimo re Carlo Felice la cancellò
Federico PaniNell’estate del 1820, le truppe spagnole di stanza a Cadice, pronte a salpare per il Sudamerica, anziché compiere la loro missione, si ammutinarono, riportando in vita la carta rivoluzionaria del 1812, che prendeva il nome dalla città. L’evento generò una reazione a catena: i moti giunsero anche in Italia, prima a Napoli e poi a Torino, dove esattamente 200 anni fa il reggente Carlo Alberto giurò su un’analoga quanto effimera costituzione. Al fine di raccontare una vicenda che costituisce, per così dire, il prequel della storia dell’unificazione italiana, abbiamo intervistato Pierangelo Gentile, ricercatore di Storia contemporanea, esperto di Risorgimento, presso l’Università di Torino.
Professore, può inquadrare l’evento del 13 marzo nel suo contesto più generale?
«La storiografia tradizionale considera i moti del 1820-21 come l’origine del Risorgimento, una serie di eventi che fece tremare l’Europa disegnata da Metternich durante il Congresso di Vienna. Oggi sappiamo, invece, che questi fatti si inseriscono in una dimensione transnazionale: ciò che accadde in Piemonte è solo la coda di una serie di fenomeni che si generarono altrove; potremmo addirittura parlare di “rivoluzioni mediterranee”; più che un confine, in quegli anni, il Mediterraneo fu un vettore per quegli ideali. Tutto partì, infatti, dal pronunciamiento di Rafael del Riego, che sarebbe dovuto salpare da Cadice, per stroncare quelle rivoluzioni che stavano portando all’indipendenza il Sudamerica. I moti che si diffusero in Europa erano accomunati da due concetti cardine: libertà e costituzione».
Come giunsero le idee di libertà e costituzione anche nel Regno di Sardegna?
«Erano idee che, anche nel nord dell’Italia, circolavano già da tempo. Per restare alla vicina Milano, penso all’esperienza del patriota Federico Confalonieri, alla rivista milanese “Il Conciliatore”, fino alle vicende del piemontese Silvio Pellico. Certo, rispetto a Napoli, nel Regno di Sardegna non c’era quell’amalgama che legava l’amministrazione e l’esercito ai precedenti quadri di comando napoleonici del tempo di Gioacchino Murat. Con ciò, al di là di una corte restia al cambiamento, anche in Piemonte erano in molti a voler portare un po’ di riformismo. Vittorio Emanuele I, dopo l’esilio del periodo napoleonico, aveva ristabilito la monarchia assoluta, è vero. Ma c’era chi pensava, anche a corte, che la monarchia si sarebbe potuta temperare diventando amministrativa.
Il personaggio centrale nelle vicende del 1821 è, naturalmente, Carlo Alberto, che dieci anni dopo sarebbe divenuto re di Sardegna. Designato come futuro successore al trono da Vittorio Emanuele I, Carlo Alberto era cresciuto fino a una certa età distante dalla corte sabauda: non era un parente diretto, ma un cugino molto alla lontana; apparteneva alla famiglia dei Savoia-Carignano, staccatasi dal ramo principale nel 1620. E Carlo Alberto, fin da ragazzo, nonostante l’educazione ricevuta a corte, si era legato a una cerchia di personaggi che, a differenza degli ambienti di palazzo, credevano fermamente in quegli ideali di libertà e costituzione. Ciò spiega come mai, proprio pochi giorni prima dello scoppio dei moti, Carlo Alberto si trovasse a Palazzo Carignano, a Torino, insieme a quelli che ne sarebbero stati i protagonisti; tra di essi, spicca senza dubbio il nome di Santorre di Santarosa.
La prima città ad insorgere nel Regno di Sardegna fu Alessandria, l’avamposto militare orientale sabaudo; e, difatti, furono proprio i militari a insorgere. Quando l’insurrezione raggiunse Torino, Vittorio Emanuele I decise di abdicare. Ma non lo fece a favore di Carlo Alberto, bensì del fratello, Carlo Felice, duca del Genevese. Il quale, però, in quel momento, non si trovava a Torino ma a Modena, in visita a una nipote. La reggenza, perciò, fu lasciata a Carlo Alberto. All’epoca, aveva appena ventitre anni. Carlo Alberto si trovò, a quel punto, in balia degli eventi: i rivoluzionari volevano la costituzione e la guerra all’Austria. E la situazione era difficile: Vittorio Emanuele era partito per Nizza e tutti i suoi ministri avevano dato le dimissioni. Ne nacque, dunque, un governo provvisorio.
Il 13 marzo, di fronte alla folla riunita sotto Palazzo Carignano, Carlo Alberto si impegnava per la nuova costituzione giurata la sera del 15; era una costituzione sul modello di quella di Cadice, che però conteneva molti compromessi: oltre alla salvaguardia della legge salica e della religione cattolica, si stabiliva che tutte le modifiche avrebbero dovuto ricevere l’approvazione del Parlamento e del sovrano. Alla notizia, il legittimo re, Carlo Felice, andò su tutte le furie: disse che non avrebbe riconosciuto nulla, nemmeno l’abdicazione del fratello; pensava, anzi, che l’abdicazione gli fosse stata estorta. Al messo inviatogli da Torino disse questo: che, se a Carlo Alberto fosse rimasta almeno una goccia di sangue di casa Savoia dentro le vene, avrebbe dovuto ritirare tutto quanto aveva detto, facendosi proteggere dai soldati rimastigli fedeli.
Carlo Alberto temporeggiò. Poi, cedette alla volontà del sovrano e abbandonò la causa. Ma ormai il disastro era fatto: fuggì a Novara, dove si erano asserragliate le truppe lealiste. A quel punto, il comando passò ai militari. Le raccogliticce truppe costituzionali decisero di marciare su Novara con l’idea di promuovere la Costituzione, convinti che avrebbero potuto unirsi all’esercito, facendo leva sugli ideali di fratellanza. Ad aspettarli, invece, trovarono una brutta sorpresa: all’inizio di aprile, infatti, le truppe austriache avevano attraversato il Ticino per porre fine ai moti, proprio come era accaduto a Napoli. La situazione si risolse dopo un rapido scontro: nel giro di poche ore, gli insurrezionali furono sconfitti e l’esperienza costituzionale ebbe fine. Si trattò di un’esperienza che definirei “rivoluzionaria e non costituzionale”: se è vero che ci fu una rivoluzione, la Costituzione, infatti, non entrò mai in vigore».
Che cosa accadde dopo che l’ordine venne ristabilito?
«La rivoluzione durò solo trenta giorni, ma lasciò ferite molto profonde. Molti di coloro che avevano partecipato ai moti – che erano soldati, figli di ufficiali e di maggiorenti – furono costretti a fuggire; si contarono circa tremila compromessi. Carlo Alberto, dopo un periodo di allontanamento, fu costretto a riabilitarsi: partecipò alla campagna di Spagna del 1823 contro i rivoluzionari, guidata dalla Francia di Luigi XVIII, distinguendosi soprattutto durante la battaglia del Trocadero, a Cadice. Infine, giurò (davanti al re di Francia) che non avrebbe mai più mutato la natura istituzionale del Regno di Sardegna. Nonostante ciò, a lungo Carlo Alberto sarebbe stato tormentato dalle vicende del 1821.
Col passare del tempo, il periodo delle riforme sarebbe arrivato anche per il Regno di Sardegna: nel 1837 Carlo Alberto stesso, diventato re, concedette il Codice civile. La monarchia diventava amministrativa, anche se la Costituzione non arrivò fino al 4 marzo del 1848, quando venne proclamato lo Statuto Albertino. Ma, fino all’ultimo, la volontà di Carlo Alberto fu quella di mantenere uno stato assoluto e forte: lo dimostra il fatto che ignorava molti dei suggerimenti che gli venivano dati dai suoi ministri. Nonostante il Codice civile, ad esempio, ripristinò il maggiorascato e il fedecommesso.
L’immagine di Carlo Alberto che abbiamo noi oggi, ossia quella di un re magnanimo e martire, dipende dai fatti che seguirono: non solo furono gli eventi a costringerlo a concedere la Costituzione, ma quegli stessi eventi lo costrinsero anche a lanciarsi nella Prima (fallimentare) Guerra d’Indipendenza, alla fine della quale abdicò in favore di Vittorio Emanuele II, il futuro primo re d’Italia. La decisione dell’esilio sarebbe quindi diventata funzionale per costruire quell’idea mitica che abbiamo oggi di Carlo Alberto. L’immagine del suo monumento a Torino, nella piazza che porta il suo nome, riassume molto bene tutto questo: il re ha la spada sguainata mentre una figura allegorica femminile porge una corona di spine, simbolo del martirio».
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