CULTURA • Pierangela Diadori, direttrice del Ditals, ci rivela le difficoltà che incontrano più spesso
FEDERICO PANI
La “didattica della lingua italiana agli stranieri” è, per certi versi, una disciplina dai contorni difficili da definire. Per capirne meglio l’affascinante mondo, abbiamo intervistato la direttrice del Centro di Ricerca e Servizio Ditals (Certificazione in didattica dell’italiano a stranieri) dell’Università per Stranieri di Siena, Pierangela Diadori (nella foto), madrina dell’omonima certificazione.
Oltre ai percorsi universitari, insieme alla certificazione Ditals di Siena, in Italia la professionalizzazione dell’attività passa anche per il Dils-Pg dell’Università per Stranieri di Perugia o il Cedils dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dunque, insegnare italiano agli stranieri è un’attività che non si può improvvisare, non fosse altro perché sono richieste delle certificazioni.
«Sì, anche se c’è da dire che il mercato del lavoro, anche in questo caso, è fluido: la certificazione non viene sempre richiesta e, in generale, dipende molto dal contesto nel quale si insegna. La nostra certificazione Ditals di primo livello tiene conto di questo e si distingue, a differenza delle altre, in funzione dei vari profili degli apprendenti. Ma non esistono solo gli esami di certificazione: i Master annuali post lauream, per esempio, sono altamente professionalizzanti. Il Master Ditals, per esempio, che si svolge in buona parte online, oltre a una preparazione teorica in didattica dell’italiano, offre anche la possibilità di svolgere tirocini, anche fuori dall’Italia (presso sedi in Germania, Spagna, Polonia, Cina, Vietnam, Singapore ecc.)».
Perché non basta essere parlanti nativi e avere un po’ di esperienza per insegnare l’italiano agli stranieri?
«Soprattutto in passato, c’è stato chi si è improvvisato e ha imparato il mestiere sulla pelle degli studenti. Un insegnante non deve conoscere per forza la lingua dell’apprendente, quanto, piuttosto, le difficoltà reali che l’apprendente deve affrontare. Nell’insegnamento dell’italiano come lingua madre, ad esempio, si insiste molto sulla differenza tra il passato prossimo e il passato remoto. Ora, per uno studente straniero la vera difficoltà è affrontare la differenza tra imperfetto e passato prossimo, cosa che per un nativo invece non crea problemi. Faccio un altro esempio, il problema degli articoli: alcune lingue nemmeno li hanno (penso al russo e al cinese), e chi insegna a parlanti stranieri non può certo pensare di soffermarsi solo sulla questione dell’apostrofo. Le differenze, poi, sussistono anche a livello pragmatico: penso alle pause o al sovrapporsi all’altro nel discorso. In italiano, l’interruzione collaborativa per una co-costruzione del senso della frase è normale; uno studente giapponese, invece, la percepisce come aggressiva».
Può parlarci di alcune delle strategie che avete messo a punto per favorire l’apprendimento?
«Innanzitutto va detto che ci sono state nel tempo delle indagini per rilevare l’intenzione che portava gli stranieri allo studio dell’italiano. Nell’ultima indagine, risulta che al primo posto ci sia la cultura (nei questionari va sotto la voce “tempo libero”), seguita dallo studio, dal lavoro e dalle ragioni familiari. L’Italia ha degli aspetti culturali molto attraenti e, perciò, abbiamo scelto di approfondirne alcuni, sotto forma di seminari tematici. Ne abbiamo realizzato uno sulla musica, sia classica, sia leggera – del resto si sa che la melodia facilita l’apprendimento mnemonico. Un altro seminario ha riguardato il cinema: anche le immagini hanno un effetto virtuoso nell’insegnamento di una lingua, purché il docente sia in grado di “didattizzare” una sequenza, così come si fa con un articolo di giornale. Un terzo seminario è stato dedicato alla moda, e abbiamo invitatoanche degli esperti del settore a prenderne parte. L’ultimo seminario, invece, ha riguardato la cucina: la cultura alimentare italiana è senz’altro un elemento di grande attrattività fra gli stranieri e spesso viene utilizzataproprio per avvicinare gli studenti alla lingua e alla cultura italiana in generale».
Una curiosità: qual è l’aspetto dell’italiano per uno straniero più difficile da imparare?
«Posso dire che l’aspetto nel quale tutti gli apprendenti trovano difficoltà sono le doppie consonanti: anche il parlantenativo di lingue che le posseggono nella scrittura, come il francese o il tedesco, ha difficoltà a pronunciarle, a ricordarsi quando sono presenti e,naturalmente, a scriverle».
La “didattica della lingua italiana agli stranieri” è, per certi versi, una disciplina dai contorni difficili da definire. Per capirne meglio l’affascinante mondo, abbiamo intervistato la direttrice del Centro di Ricerca e Servizio Ditals (Certificazione in didattica dell’italiano a stranieri) dell’Università per Stranieri di Siena, Pierangela Diadori (nella foto), madrina dell’omonima certificazione.
Oltre ai percorsi universitari, insieme alla certificazione Ditals di Siena, in Italia la professionalizzazione dell’attività passa anche per il Dils-Pg dell’Università per Stranieri di Perugia o il Cedils dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dunque, insegnare italiano agli stranieri è un’attività che non si può improvvisare, non fosse altro perché sono richieste delle certificazioni.
«Sì, anche se c’è da dire che il mercato del lavoro, anche in questo caso, è fluido: la certificazione non viene sempre richiesta e, in generale, dipende molto dal contesto nel quale si insegna. La nostra certificazione Ditals di primo livello tiene conto di questo e si distingue, a differenza delle altre, in funzione dei vari profili degli apprendenti. Ma non esistono solo gli esami di certificazione: i Master annuali post lauream, per esempio, sono altamente professionalizzanti. Il Master Ditals, per esempio, che si svolge in buona parte online, oltre a una preparazione teorica in didattica dell’italiano, offre anche la possibilità di svolgere tirocini, anche fuori dall’Italia (presso sedi in Germania, Spagna, Polonia, Cina, Vietnam, Singapore ecc.)».
Perché non basta essere parlanti nativi e avere un po’ di esperienza per insegnare l’italiano agli stranieri?
«Soprattutto in passato, c’è stato chi si è improvvisato e ha imparato il mestiere sulla pelle degli studenti. Un insegnante non deve conoscere per forza la lingua dell’apprendente, quanto, piuttosto, le difficoltà reali che l’apprendente deve affrontare. Nell’insegnamento dell’italiano come lingua madre, ad esempio, si insiste molto sulla differenza tra il passato prossimo e il passato remoto. Ora, per uno studente straniero la vera difficoltà è affrontare la differenza tra imperfetto e passato prossimo, cosa che per un nativo invece non crea problemi. Faccio un altro esempio, il problema degli articoli: alcune lingue nemmeno li hanno (penso al russo e al cinese), e chi insegna a parlanti stranieri non può certo pensare di soffermarsi solo sulla questione dell’apostrofo. Le differenze, poi, sussistono anche a livello pragmatico: penso alle pause o al sovrapporsi all’altro nel discorso. In italiano, l’interruzione collaborativa per una co-costruzione del senso della frase è normale; uno studente giapponese, invece, la percepisce come aggressiva».
Può parlarci di alcune delle strategie che avete messo a punto per favorire l’apprendimento?
«Innanzitutto va detto che ci sono state nel tempo delle indagini per rilevare l’intenzione che portava gli stranieri allo studio dell’italiano. Nell’ultima indagine, risulta che al primo posto ci sia la cultura (nei questionari va sotto la voce “tempo libero”), seguita dallo studio, dal lavoro e dalle ragioni familiari. L’Italia ha degli aspetti culturali molto attraenti e, perciò, abbiamo scelto di approfondirne alcuni, sotto forma di seminari tematici. Ne abbiamo realizzato uno sulla musica, sia classica, sia leggera – del resto si sa che la melodia facilita l’apprendimento mnemonico. Un altro seminario ha riguardato il cinema: anche le immagini hanno un effetto virtuoso nell’insegnamento di una lingua, purché il docente sia in grado di “didattizzare” una sequenza, così come si fa con un articolo di giornale. Un terzo seminario è stato dedicato alla moda, e abbiamo invitatoanche degli esperti del settore a prenderne parte. L’ultimo seminario, invece, ha riguardato la cucina: la cultura alimentare italiana è senz’altro un elemento di grande attrattività fra gli stranieri e spesso viene utilizzataproprio per avvicinare gli studenti alla lingua e alla cultura italiana in generale».
Una curiosità: qual è l’aspetto dell’italiano per uno straniero più difficile da imparare?
«Posso dire che l’aspetto nel quale tutti gli apprendenti trovano difficoltà sono le doppie consonanti: anche il parlantenativo di lingue che le posseggono nella scrittura, come il francese o il tedesco, ha difficoltà a pronunciarle, a ricordarsi quando sono presenti e,naturalmente, a scriverle».
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