CULTURA • La docente Caterina Canneti ripercorre la storia della nostra lingua davanti ai fornelli
FEDERICO PANI
Quando comincerete a leggere queste righe, non sarà certamente passato molto tempo dall’ultima volta in cui avrete parlato di cibo. All’abitudine fisiologica, in Italia più che altrove, alla cucina si accompagna, infatti, una dimensione familiare e culturale insostituibile, sempre in aggiornamento e soggetta alle più diverse mode. Della storia della lingua in cucina parliamo con Caterina Canneti, assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze e collaboratrice dell’Accademia della Crusca, che ha curato un bell’articolo sull’argomento comparso sull’enciclopedia online della Treccani.
Quando comincia la storia dell’italiano in cucina?
«L’italiano è una lingua storicamente soggetta a molte varietà. Questo vale anche per la lingua della cucina. Proprio perciò gli studiosi sono incerti se classificarla come lingua settoriale; difatti, è ricchissima di geosinonimi, ossia di denominazioni diverse, di solito geograficamente connotate, che indicano la stessa cosa. Penso, giusto per far uno dei tantissimi esempi possibili, ai tipici dolci di carnevale che in Toscana si chiamano “cenci”, ma che nel resto d’Italia vengono chiamati anche “chiacchiere”, “bugie” o “frappe”. La storia della lingua italiana in cucina comincia con il “Manoscritto 1071” della Biblioteca Riccardiana di Firenze, considerato il ricettario più antico in lingua volgare: è un manoscritto mutilo che riporta 57 ricette (ma forse, originariamente, ne doveva prevedere almeno 72), nel quale già si osserva la tipica struttura delle ricette culinarie, contenente le dosi e le indicazioni per la preparazione delle pietanze».
Passiamo all’Ottocento, secolo che avvia l’unificazione linguistica della Penisola. Qualcuno ha paragonato l’opera di Pellegrino Artusi, fatte le debite proporzioni, a quella di Alessandro Manzoni: è così?
«In un certo senso, sì. Solo nell’Ottocento, infatti, cominciò ad affacciarsi l’ideale di un’unità linguistica anche in cucina. E proprio in questo ambito, Pellegrino Artusi, con il suo libro “La scienza in cucina”, che conta ben 14 edizioni, dal 1891 al 1911, per un totale di 790 ricette, è davvero una figura centrale. Artusi si rese conto che la lingua della cucina era un miscuglio di tecnicismi e dialettismi a cui egli in prima persona cercò di dare un assetto unitario, per quanto possibile. Per farlo, si trasferì da Forlimpopoli a Firenze e, come Manzoni, appunto, si sforzò di imparare il fiorentino dei colti; ma la sua lingua era il frutto anche dello studio degli autori del Trecento e dei vocabolari dell’epoca. Nel libro di Artusi, data la sua provenienza geografica, confluirono soprattutto le ricette della tradizione toscana e romagnola. Alla stesura collaborarono anche Marietta Sabatini e il cuoco Francesco Ruffilli, che fornirono consulenza e opera gastronomica e, nel caso di Marietta, probabilmente anche consulenza linguistica. E così, grazie anche al loro contributo, Artusi scrisse un testo che tutt’oggi ancora molti di noi hanno in casa e consultano. Su questo testo, rimando volentieri agli studi compiuti in maniera approfondita da Giovanna Frosini e Monica Alba».
Arriviamo ai giorni nostri: come si presenta la lingua culinaria, oggi?
«Nella seconda metà del Novecento cambiò lasocietà e con essa anche la lingua: l’economia crebbe fortemente e nacque l’industria alimentare; al contempo, l’unificazione linguistica procedette. Così, molti termini regionali diventarono patrimonio condiviso: ad esempio, il termine piemontese “grissini”, o i regionalismi, come “cassata”, “caciocavallo”, “cappelletti” e “braciola” (che a Firenze è una fetta di carne, mentre a Napoli è un involtino). Al pari di quanto accadde nel Settecento, quando l’italiano si arricchì di termini francesi, anche i termini culinari di altre lingue in contatto con l’italiano continuarono a entrare nell’uso corrente. Questo fenomeno accade anche oggi: la lingua della cucina è fortemente legata alle nostre abitudini quotidiane e da esse viene plasmata. Dunque, con l’arrivo di tante abitudini non strettamente italiane, sono arrivati altrettanti termini stranieri: giusto per arrivare agli ultimi dieci o vent’anni anni, penso a “sushi”, ovviamente, ma anche a “poke”, parola di origine hawaiana, che indica un’insalata che oggi va molto di moda. Il cibo, infatti, come tanti aspetti della nostra vita quotidiana, è soggetto alle mode; ad esempio, prendiamo l’uso del singolare per alcuni termini: dire“la lasagna”, anziché “le lasagne” o “il pacchero”, anziché “i paccheri”, oppure “lo spaghetto di mezzanotte”; ecco, queste variazioni servono di solito a darsi un tono o a fare sembrare il discorso più tecnico».
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