La grammatica noiosa? No, può appassionare

CULTURA • La docente Dalila Bachis ci informa sul valore delle regole della lingua italiana

FEDERICO PANI
La grammatica. Che noia. E invece no, tutto il contrario: la grammatica è un argomento ricco di sfumature e storia, persino avvincente. Ne parliamo con Dalila Bachis (nella foto), assegnista di ricerca presso l’Università di Siena e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. La studiosa ha dedicato all’argomento un saggio dal titolo “Le grammatiche scolastiche dell’italiano edite dal 1919 al 2018”, pubblicato dall’Accademia nel 2019.

Se, come spiegano i linguisti, la grammatica non è un sistema di regole immutabile, perché in molti di noi resta radicata l’idea che si tratti di un sistema monolitico?

«La parola “grammatica” può voler dire almeno tre cose: è la struttura che regola il funzionamento di una lingua, ma anche l’insieme delle regole che la descrivono e, infine, anche il libro digrammatica; come fa notare Luca Serianni, possiamo dire “prendi la grammatica”, riferendoci al libro, mentre non diremmo mai “prendi la storia” o “la matematica”. L’idea di una grammatica monolitica, riposa sul pregiudizio di una lingua sempre uguale a se stessa ed ha delle ragioni storiche: la nostra lingua è indissolubilmente legata alla letteratura; l’italiano nacque come lingua letteraria e scritta, ben prima dello Stato unitario. Con l’Unità, però, si pose il complicato problema dell’insegnamento dell’italiano, particolarmente arduo anche per gli insegnanti, per la stragrande maggioranza dialettofoni. Per superare la difficoltà, i programmi scolastici furono strutturati secondo una rigida osservanza di quella che veniva chiamata “la buona lingua”: esprimersi in modo corretto voleva dire, di fatto, evitare sia il dialetto sia il registro parlato; insomma, nessuno dei modelli linguistici distanti dall’italiano scritto poteva trovare spazio. Da qui nasce l’idea di un “italiano corretto”, che è scritto e non parlato, che è letterario e non colloquiale, che è fiorentino di base e mai regionale».

Come si svilupparono le grammatiche nel secondo dopoguerra italiano?

«Le cose cominciarono a cambiare effettivamente solo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Innanzitutto ci fu una grande rivoluzione, la scuola media unica, entrata in vigore nel 1963: molte più persone proseguirono gli studi; se prima, a farlo, erano quasi solo i giovani delle classi più agiate, anche i figli degli operai e dei contadini, naturalmente dialettofoni, cominciarono a studiare più a lungo. Insegnare una lingua così distante da quella parlata dalla maggior parte degli alunni, divenne ancora più difficile. Proprio nel 1963 Tullio De Mauro pubblicò la prima edizione della Storia linguistica dell’Italia unita, nella quale parlò dell’italiano scolastico come di un “antiparlato”, un italiano che non teneva conto delle diversità della lingua né su base regionale né nelle sue differenze di registro. Alla critica di De Mauro seguì, nel 1971, un’importante analisi delle grammatiche scolastiche. Infine, nel 1975, un gruppo di linguisti e di insegnanti denominato “Giscel” arrivò alla formulazione delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, una fondamentale critica all’educazione linguistica tradizionale, che denunciava sia la concezione sia la didatticatradizionale della lingua».

Quali furono le conseguenze di queste critiche, arrivando fino a oggi?

«Divenne chiaro che insegnare una lingua non significa solo insegnare a classificare e imparare delle definizioni, limitandosi all’analisi logica e grammaticale; significa anche saper produrre una comunicazione efficace. Da questo punto di vista è stato decisivo il contributo della linguistica testuale, la quale ha posto l’accento sulle capacità di comprensione di un testo e di produzione scritta non solo creativa. I programmi che seguirono, del 1979 e del 1983, rispettivamente per la scuola media e la scuola superiore, cominciarono a dare importanza anche a questi aspetti. Da allora fino a oggi, però, si sono susseguite riforme e linee guida che hanno sì provato a modificare l’impostazione classica, ma lo hanno fatto in modo vago e disomogeneo, affidandosi perlopiù al buon senso degli insegnanti. Rimane, dunque, ancora molto lavoro da fare. In primo luogo, la norma grammaticale continua a essere ritenuta intoccabile, mentre in realtà variasulla base del contesto. In secondo luogo, la lingua non viene ancora percepita come un organismo in evoluzione. Così, la lezione di grammatica resta spesso quella nella quale si insegna “come si deve dire qualcosa”. Ed è ancora lontana l’idea che un quesito grammaticale possa prevedere più risposte giuste, proprio sulla base del contesto».

 

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