Vittorio De Sica, la vita come una commedia


13 Novembre 1974 • Il grande regista e attore muore a Parigi. Così lo ricorda Beppe Arena



Federico Pani
Ci sono molti modi per parlare di Vittorio De Sica. Per i manuali di cinema è il padre del neorealismo; nei salotti televisivi è ancora, e si scusi il gioco di parole, il padre di due figli d’arte: Manuel è un compositore e Christian è, di fatto, la sua caricatura. Negli anni ‘50, era noto per aver prestato la voce, il volto e il corpo al tronfio ma bonario maresciallo Carotenuto in “Pane amore e fantasia”, nonché nei rispettivi seguiti. Nei discorsi di gossip, era un chiacchierato dongiovanni e un bigamo impenitente (ironia della sorte, recitò anche in un film dal titolo “Il bigamo”, sebbene lì interpretasse la parte di uno sconclusionato principe del foro). In televisione, fu comparsa di prestigio e cantastorie. Era un uomo del sud, che si sentiva napoletano (aveva passato lì gli anni più belli della sua infanzia), ma che fu rapito da Cinecittà e finì i suoi giorni a Parigi (dove morì, questo stesso giorno del 1974). Era un uomo molto generoso, ma con la passione sfrenata per il gioco (parte, quella del giocatore incallito che, peraltro, ha ricoperto con autoironia in diversi film).

Ci sono poi anche altri De Sica, meno noti. Il più dimenticato è forse quello degli inizi, tra le file dell’esercito delle “teste d’ebano” (li definì così Italo Moscati), ossia quegli attori che, tra anni Venti e Trenta, si imbrillantinavano la testa, imitando Rodolfo Valentino e Fred Astaire. Parlando di inizi, pochi sanno che fu il padre Umberto a procurargli una prima partecipazione a una produzione cinematografica, così come che lo sostenne negli anni degli esordi nell’avanspettacolo e nel teatro. Poi, un giorno, mentre recitava in una sala mezza vuota, lo notò l’annoiato avvocato Mario Mattoli, che si era reinventato come impresario di spettacoli e cineasta. Da lì, il decollo della carriera, attore, cantante (nel film “Gli uomini, che mascalzoni…” canta la celebre “Parlami d’amore, Mariù”), regista, attore, attore e ancora attore: recitò in 157 pellicole (sì, anche per sanare i debiti di gioco); se non ci fosse stato Alberto Sordi, avrebbe lui oggi il primato del maggior numero di film interpretati da un italiano.

«De Sica è stato un grande del cinema italiano e mondiale, paragonabile per complessità e completezza, nella sua dimensione artistica, a un altro grandissimo come Charlie Chaplin; non solo per una questione di misura ma anche di versatilità: ha attraversato quasi tutte le forme d’arte, dalla canzone alla recitazione, dalla regia alla scrittura», ha detto in una trasmissione su Radio3 Patrizia Pistagnesi, critica cinematografica e sceneggiatrice. Un grandissimo, come gli riconoscono anche molti registi americani, da Scorsese ad Allen a Spielberg, che disse di essersi ispirato ai netturbini che prendono il volo sulle loro scope in “Miracolo a Milano”, quando girò la scena di “E.T.” dei ragazzi che levitano sulle loro biciclette.

Bene, resta un dubbio, però, forse una mera impressione: come mai lo si ricorda, ma in fondo non in modo così continuo come accade, ad esempio, con un Fellini o un Totò? Forse, ma è un’ipotesi, il motivo è che al suo monumento non si sa fino in fondo che volto dare.

Certo, a doverci scommettere, De Sica non verrà mai dimenticato, quantomeno per i suoi film neorealisti: “I bambini ci guardano”, “Sciuscià”, “Ladri di biciclette” (entrambi premiati con l’Oscar) e “Umberto D.” sono, provare per credere, incredibilmente resistenti alla prova del tempo. Ecco che, però, sulla carriera di De Sica pesa un giudizio moralistico e artistico difficile da cancellare. La sua vita privata è stata oggetto di pettegolezzi, condanne, sotterranea ammirazione e rettifiche: sull’argomento, bastino le due biografie dedicategli dal figlio Manuel e dalla seconda moglie, María Mercader. Poi, c’è il giudizio artistico, che non solo non gli ha perdonato l’alimentare attività da attore, ma anche quella registica. Vale la pena rileggersi quello che Goffredo Fofi (che pure esalta la quadrilogia neorealista) scrive nel suo “I grandi registi del cinema”: “La parabola di De Sica si consuma nel breve arco di sette anni, dalla fine della guerra a ‘Umberto D.’, scadendo in seguito nell’abuso di certi moduli di ricattatoria commedia sentimentale (i film con la coppia Loren-Mastroianni, per esempio), piegati a una impudica svendita delle proprie capacità tecniche (rivisto, il più celebrato e ambizioso dei suoi film successivi, il film da Oscar ‘Il giardino dei Finzi-Contini’, 1970, è di una rozzezza, trasandatezza e superficialità invero sconcertanti!)”.

Posta la grandezza indiscutibile del De Sica regista, forse, però, potrebbe valere la pena rivalutarlo anche come attore: «Ho sempre nutrito simpatia per Vittorio De Sica, oltre averlo sempre apprezzato come attore», dice Beppe Arena, regista teatrale cremonese e direttore della Scuola di teatro “Luigi Carini” presso la Società Filodrammatica Cremonese. «Si può dire – prosegue – che la sua vita stessa sia stata una commedia: aveva due famiglie, una all’insaputa dell’altra; lui stesso raccontava che doveva festeggiare due volte il Natale (e mangiare, di conseguenza, due volte); aveva il vizio del gioco e, spesso, si ritrovava senza un soldo, con la famiglia al seguito da dover riportare a casa. De Sica è, del resto, uno di quei tipici attori celebri di quegli anni, che all’attività di lavoro affiancavano un’intensa vita mondana».



«Dicevo – prosegue Arena – che l’ho sempre anche molto apprezzato come attore: innanzitutto, veniva dall’avanspettacolo, che era una grande scuola. E poi aveva fatto il teatro, il cinema, la televisione; aveva fatto la gavetta, insomma, come si vede molto bene dal mestiere. Certo, De Sica ha realizzato dei film che sono passati alla storia, ma incarnava anche la commedia classica italiana, senza tuttavia banalizzarne i personaggi; li costruiva sempre molto bene, con molta misura. In più, era un uomo di gran classe e carisma, che, all’epoca (oggi è diverso: oggi un po’ tutti fanno gli attori), era, insieme alla gavetta, un requisito fondamentale per quel lavoro».

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