CULTURA • Il professor Rocco Luigi Nichil, collaboratore della Treccani, ha dedicato al tema alcuni libri
FEDERICO PANI
Rocco Luigi Nichil (a destra nella foto) è uno dei massimi esperti di lingua italiana legata allo sport: professore all’Università del Salento, collabora con la Treccani e ha dedicato al tema alcuni libri, l’ultimo scritto insieme a Pierpaolo Lala, si intitola “Invasione di campo. Il gioco del calcio nel linguaggio e nel racconto della politica”. Gli abbiamo rivolto alcune domande sull’uso quotidiano della lingua dello sport e, in particolare, del calcio.
Quasi ogni giorno, ci capita di fare gol a porta vuota, giocare di sponda, restare in panchina, partire in quarta, fare tappa o uno sprint. Come mai facciamo così tanto ricorso alle metafore sportive?
«Il linguaggio sportivo che si incontra nella conversazione di tutti i giorni fa parte del cosiddetto linguaggio idiomatico, ricco di metafore e che colora i nostri discorsi. Ora, lo sport fa davvero parte della nostra vita quotidiana; in particolare il calcio, quantomeno nella società italiana contemporanea, è una manifestazione spettacolare ed è certamente più quello visto e discusso che quello praticato. Non è sempre stato così: nel corso del Novecento, il calcio si sostituì allo sport nazionale italiano che lo aveva preceduto, ossia il ciclismo. Le cose, però, cominciarono a cambiare, soprattutto grazie alla vittoria dell’Italia agli Europei del ’68 e dopo il celeberrimo 4-3 contro la Germania del 1970. Ecco, a fronte del successo crescente del calcio, l’uso di metafore ad esso legate fu perciò sempre più naturale: espressioni come essere di serie A o B, fare gol a porta vuota, zona Cesarini e molte altre ancora, sono le conseguenze del successo antropologico del calcio nella società italiana».
Alcuni cronisti sportivi hanno fatto notare che il vocabolario del calcio è più italianizzato di quello di altri sport: è così?
«È vero e le ragioni per cui il vocabolario del calcio è particolarmente italianizzato, sono soprattutto storiche. Ne ho scritto nel libro “Il secolo dei palloni. Storia linguistica del calcio, del rugby e degli altri sport con la palla nella prima metà del Novecento”, accostando il calcio al rugby, proprio perché i due sport furono praticamente la stessa cosa fino a quell’anno. Il calcio che fu esportato dall’Inghilterra nel resto del mondo. era quello giocato alla maniera di Cambridge, da quella che si chiamava la Football Association: bene, proprio questo nome per intero, venne dato anche in Italia allo sport che poi sarebbe diventato il calcio. I nomi ad esso riferiti erano quasi tutti inglesi: l’arbitro era il referee, il portiere goalkeeper, l’attaccante forward, il centrocampista half e il difensore back. Nel percorso di italianizzazione del vocabolario del calcio, il primo fattore che cominciò a contare era, al pari del rugby, la possibilità di leggerlo come una metafora della guerra: due compagini che si affrontavano,l’una contro l’altra. Quelli che oggi chiamiamo attaccante, centrocampista e difensore, perciò, cominciarono a essere rispettivamente chiamati prima, seconda e terza linea. Solo più tardi, la seconda linea divenne sostegno, poi mediano e infine Gianni Brera coniò centrocampista, probabilmente dall’inglese midfielder».
Veniamo al suo ultimo libro: quali sono le metafore dominanti?
«Oggi, la maggior parte del linguaggio traslato, ossia delle metafore sportive, è legato al calcio. Tuttavia, la metafora probabilmente più usata nel linguaggio della comunicazione politica quando si parla di avversari è la coppia maratoneta e velocista, applicata a molti protagonisti della politica: da Reagan ad Andropov, fino a Berlusconi e Prodi. Ecco, il cambiamento certo si rese manifesto proprio quando Berlusconi annunciò la propria discesa in campo, una metafora che peraltro nemmeno si inventò (era stato Paolo Valenti, storico conduttore di calcio e di Novantesimo minuto sulla Rai). Non a caso, Berlusconi scelse anche il nome di azzurri per indicare gli appartenenti al partito e nacque poi la squadra di governo. Queste metafore ebbero così successo che, non appena cadde il primo governo Berlusconi nel dicembre del 1994, riferendosi all’accaduto, Franco Baresi lamentò che non si poteva allontanare un allenatore prima della fine del campionato, riferendosi a Berlusconi e a quella legislatura».
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