l'intervista
I precedenti ospiti in redazione
04/09/2021 Carlo Stassano;
25/11/2021 Anna Lucia Maramotti Politi;
13/11/2021 Giovanni Bozzini;
04/12/2021 Maurilio Segalini;
22/01/2022 don Pier Codazzi;
12/02/2022 Agostino Melega;
26/02/2022 Gabriele Cervi;
19/03/2022 Paolo Bodini
VANNI RAINERI
Con Massimo Rivoltini, a capo di Confartigianato da ben 13 anni, partiamo dalla battuta del premier Mario Draghi: meglio la pace o l’aria condizionata?
«Fatta salva la battuta, direi che la pace passa anche dall’avere l’aria condizionata. È ovvio che la pace venga prima di tutto, ma se in certi contesti si provocano problematiche di tipo sociale si innescano non una guerra bellica ma problemi enormi a livello territoriale. Quindi è logico che davanti a un disastro come quello in corso in Ucraina possiamo solo chinare la testa nella speranza, ma neanche possiamo evitare di osservare i nostri problemi. Intervenire in un conflitto di tale portata porterebbe a giudizi superficiali e ininfluenti: il nostro compito piuttosto è quello di “stare sul pezzo” e cercare di performare per quanto siamo in grado di fare».
Interpretando una frase così brutale, crede che possa essere valutato un danno collaterale la chiusura di aziende per infliggere un danno peggiore alla Russia?
«Oggettivamente le cose stanno così, bisogna capire se il danno collaterale che facciamo a noi stessi è necessario e che ripercussioni può avere. Questo è un discorso che andava fatto tanto tempo fa, per arrivare a una minore dipendenza dalle fonti energetiche rispetto a quella che abbiamo oggi, ma non si può incolpare di questo Draghi. Tre eventi storici come quelli che abbiamo attraversato negli ultimi anni, la crisi finanziaria, la pandemia e la guerra, hanno evidenziato problematiche e storture già in essere».
Probabilmente intende dire che la pandemia e la guerra si inseriscono in un quadro che già non era idilliaco: quello di un Paese come l’Italia in cui le tasse c’è chi non le paga e chi le paga esagerate, in cui la burocrazia è un pachiderma, le infrastrutture sono inadeguate e la giustizia ha tempi biblici.
«È così: accade che una situazione eccezionale con concause eccezionali ha trovato uno stato di cose inadeguato. Quel che oggi mi fa rabbia è vederci sventolare davanti soldi che arrivano dall’Europa (poi voglio vedere quali saranno i risultati effettivi) mentre ci sono gravi problematiche che avremmo potuto risolvere senza soldi, come appunto la burocrazia e la giustizia».
Si è fatto un’idea del motivo per cui nessuno riesce a risolverle?
«Partiamo da una classe politica inadeguata, e dall’equazione che serva l’antipolitica per fare politica vera, mentre io penso che la buona politica la si faccia con buoni politici. Il grande problema è che non abbiamo leader, partiti, visione. Vedo solo politiche di pancia che parlano alla pancia per un uso di tipo elettorale. Da qui partiamo con la constatazione che l’Italia è un paese inospitale per gli imprenditori, un’ostilità che è anche di tipo ideologico».
Qualcuno chiama gli imprenditori “prenditori”.
«Vede, fare impresa in Italia è semplicemente impossibile. Non voglio essere negativo, ma ora come ora penserei bene a metter su un’azienda in Italia. Qui vige la politica del piranha: ognuno ti dà un morso, nessuno dei quali letale, ma mille morsi lo diventano. I politici stessi molto spesso sono vittime della burocrazia. Potrei fare tanti esempi, fatto è che i tempi di adeguamento spesso superano i tempi per poter fare una denuncia. Nessuno sa prendersi responsabilità e il solo scopo è l’autotutela. È un muro di gomma. Sono cose che sentivo dire negli anni Settanta ma purtroppo nulla è cambiato».
Difficile trovare soluzioni alla presenza del burocrate che per giustificare se stesso tende ad isolare gli “efficienti”.
«È un sistema che non sa inserire nuove leve. Assisto a uno scoramento generale, una disaffezione della gente, ma i politici sono lo specchio della società. Ripeto, manca una visione. Detto questo, credo che oggi alcuni stiano speculando pesantemente e non solo sull’energia, e penso ci sia una regia a livello mondiale. Purtroppo se il costo dell’energia è una parte consistente del fatturato di un’azienda, questa è costretta a chiudere. D’altra parte lavorare in perdita significa prolungare l’agonia, e tutto questo dopo una pandemia che già ci ha steso. Non dico che siamo alla canna del gas ma è un momento difficilissimo. Voglio essere ottimista e dico che se teniamo la barra dritta me usciamo, ma ci saranno macerie economiche. La gente vede oggi il problema del costo dei beni di consumo, ma noi da tempo denunciamo gli aumenti. A monte osservo che siamo costretti a importare certi beni dall’estero per scelte nostre e chiusure assolute, come sugli ogm e sull’energia nucleare: non posso precludere un futuro nucleare pulito se sicuro e sostenibile. Le proteste possono essere un momento di provocazione e confronto ma se ascoltiamo certe sirene poi le conseguenze sono quelle che vediamo. Lo stesso vale per la questione chilometro zero: va benissimo per valorizzare l’agricoltura di vicinato, ma non può essere la soluzione al problema alimentare. La globalizzazione porta allo sfruttamento di alcune zone del mondo con l’obiettivo di produrre a prezzi stracciati, senza garanzie di sicurezza, ma in questo caso servono dazi, per avere reciprocità. Esportare in Cina spesso è un’impresa, mentre i cinesi qui non trovano ostacoli. Quanto alla sostenibilità, dobbiamo capire che ha costi elevati. È giusto che noi europei ci siamo “blindati” in difesa dell’ambiente, ma gli altri, non adeguandosi, sono in grado di performare sempre meglio».
Lei rappresenta gli artigiani, che sono noti per eccellere in pragmatismo. Cosa dovrebbe fare il governo, anche in considerazione di una crisi energetica che non promette di risolversi presto?
«Noi artigiani abbiamo sempre chiesto soprattutto una cosa: regole immediate, certe e praticabili, e non questa serie di adempimenti che ci piovono addosso. Io credo che prima di adottare certi provvedimenti sarebbe il caso di ascoltare chi poi sarà chiamato ad attuarli e a subirli. Chiedo dunque più attenzione alle categorie e alle associazioni. L’artigiano ha grandi pregi, ad esempio è riconosciuto che costituisce l’ossatura dell’economia italiana, ma ha un grande difetto: non sa fare lobby. Arriviamo sempre a un passo da dove si prendono le decisioni. Io credo che sia ancora vero che “piccolo è bello”, a patto di saper fare rete».
Il mondo degli artigiani come tanti altri si presenta diviso.
«Credo piuttosto che uno spreco sarebbe non andare d’accordo. Ad esempio noi con Cna siamo allineati, ma veniamo da valori diversi. Possiamo quindi fare fronte comune. Il problema è che manca una politica di attenzione verso l’imprenditore. Oggi gli artigiani si preoccupano soprattutto di arrivare alla pensione, e anche per i giovani il futuro è un’incognita. Il valore del lavoro è cambiato».
Lei è a metà del suo mandato in Confartigianato.
«Sì, ma ho iniziato nel 2009 e ho avuto la sorte di attraversare, da allora, una serie di tempeste. Però rifarei le scelte che ho fatto: penso di avere tenuto la barra dritta, e lo dimostra il fatto che Cremona performi. Mi ero ripromesso di far uscire Cremona dal guscio e mi sembra di esserci riuscito. Sono anche presidente nazionale di Confartigianato Alimentare e siamo attivi. Il bilancio lo farò alla fine ma credo di aver fatto tanto. L’auspicio è che chi arriverà dopo di me parta da qui e non ritenga questa un’esperienza da bypassare».
Ultimamente le polemiche su CremonaFiere si sono sopite. Confartigianato è tra i soci. Come sta andando?
«La Fiera è un set importantissimo per Cremona, e si deve sapere che con tutto quel che è successo se perdi una Fiera non la riprendi più. Dobbiamo lavorare tutti assieme per conservarla. Vorrei sottolineare l’anomalia positiva che la Fiera di Cremona nasca non da banche ma da associazioni (ci sono anche banche, certo) unite per portare avanti la Fiera del Bestiame e condurla a un livello superiore. Credo che la Fiera abbia pagato un eccessivo legame col mondo dell’agricoltura, e la conflittualità nel mondo agricolo l’ha penalizzata prima che intervenisse il Covid, che ha colpito ovviamente anche le altre Fiere. Ma la nostra è una Fiera snella, in posizione baricentrica, in un territorio che offre tante possibilità di intercettare manifestazioni in arrivo. La Fiera deve vivere per 365 giorni all’anno, e il nuovo corso sta facendo cose importanti. Oggi non è necessario avere grandi spazi come avveniva in passato, nel mondo virtuale contano di più i rapporti che si creano. Dell’era Biloni mi piace anche la volontà di portare la Fiera in città e viceversa: è giusto che sia un patrimonio della città».
Da un po’ di tempo non si parla di possibile alleanze.
«Devono avvenire con altre Fiere. Per la sostenibilità è necessaria la connessione, che deve partire dal basso, dalle aziende. Non serve subalternità, ma connessione».
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