Generazione Neet

ISTAT • L’Italia al primo posto in Europa per giovani che non studiano né lavorano


Enrico Galletti
C’è chi in passato li definì “bamboccioni”, chi rilanciò coniando l’infelice appellativo di “choosy”, gli schizzinosi. Qualche “lavoretto” in passato, a volte anche una laurea in tasca, il plico di curriculum lasciato sul tavolo delle agenzie del lavoro. Di chiamate, alcune. «Aspettiamo quella giusta», dicono molti di loro. «Pronti a tutto», scandiscono altri. E visto che generalizzare è sempre sbagliato, tra i due milioni abbondanti di Neet italiani, per dirla tutta, c’è anche chi un’occupazione non se la cerca. Neet. “Not in education, employment or training”. Hanno tra i 15 e i 29 anni, non lavorano e non studiano. E con la pandemia sono aumentati, passando dal 22,1% del 2019 al 23,7% del 2020. Nel 2021, 23,1%. È il dato peggiore d’Europa, con quasi dieci punti oltre la media Ue: secondo l’Istat, l’Italia è al primo posto per presenza di Neet. Il fenomeno interessa in modo particolare le ragazze. Tra le donne il 25% non fa formazione né ha un’occupazione (erano il 25,8% nel 2020), mentre tra gli uomini sono il 21,2% (erano il 21,8% nel 2020). Le differenze regionali e il divario Nord-Sud restano fattori incisivi. Le zone con la quota più elevata di Neet sono la Puglia (30,6%), la Calabria (33,5%), la Campania (34,1%) e la Sicilia (36,3%).

Nel 2008 il fenomeno riguardava il 19,3% di giovani in Italia e il 13,1% in Europa; la crescita nel nostro Paese è stata molto più veloce rispetto alla media Ue, fino a interessare nel 2014 – al culmine della crisi occupazionale – più di un giovane su quattro (26,2%, 10 punti percentuali al di sopra della media Ue).

Sondando tra le loro storie, si coglie che non tutti i Neet sono uguali. Non sono tutti “sdraiati”, come li dipinse in un libro Michele Serra. C’è Alessio, una laurea in beni culturali nel 2018 e più nulla. «Do lezioni private ai ragazzi delle superiori, vale come tentativo di trovarsi un posto nella società?», sbotta. «Il più delle volte si crede che a un titolo corrisponda un lavoro, te lo fanno credere a scuola e all’università. Non è così: io un lavoro l’ho cercato a lungo, ma dopo sei mesi alla biglietteria di un museo ho abbandonato le speranze».

Storie come questa vanno a braccetto con quelle di chi prova a reinventarsi, a trovare il piano B che va dall’istruttore di pallacanestro al lavapiatti a ore sotto casa. «Ma di un lavoro vero e proprio neanche l’ombra - dice Lucrezia, maturità classica nel 2020, che un’occupazione, dopo il diploma, non l’ha mai avuta -. Ora aiuto i miei genitori in una piccola azienda di famiglia e nel frattempo, ogni giorno, pubblico candidature spontanee sui social per un posto regolare da baby sitter. Chi chiama ti offre qualche ora in nero, ma io sogno di uscire di casa, di non dipendere più da mamma e papà. E senza un contratto in mano dove vado? Da anni chi ci governa parla di politiche attive del lavoro, di soluzioni per non doversi ridurre come noi, ma qui la storia si ripete».

Anche Samuele è un Neet, sul bigliettino da visita che si è stampato a casa - quello in cui si propone come autista privato - ha tutte le carte in regola: «Automunito, parlo due lingue, disponibile a spostarmi. Non sono riuscito a far capire quale sia il mio valore - dice - e così i giorni chiuso in camera da letto aumentano. Per darmi da fare mi sono messo a pulire il quartiere, l’ho fatto per sentirmi utile. E perché sono stufo». Sbuffa. «Mi sono stancato di sentir dire che siamo dei mantenuti, dei fannulloni, che siamo nati stanchi. Passiamo le nostre giornate in casa semplicemente perché non abbiamo alternative. Con i 600 euro di disoccupazione, che per molti sono un mero assegno di mantenimento, ci facciamo la spesa ma non viviamo. Come puoi fare progetti in queste condizioni? Non è solo una questione economica, ma di dignità». C’è chi ci prova, a fronte di chi rischia di rassegnarsi all’idea di essere disoccupato a tempo pieno.

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