Luciano Cesini, terzino di destra uomo di sinistra

Chi è Luciano Cesini, una vita in grigiorosso

Luciano Cesini è nato a Piadena, dove ha sempre vissuto, il 1° novembre 1948. A 17 anni si trasferisce dalla Martelli alla Cremonese, dove esordisce il 25 settembre 1966. Terzino destro, chiuderà una carriera tutta in grigiorosso nel 1979, assommando 436 partite con la stessa maglia, record assoluto. Subito diventa allenatore del settore giovanile, e nel 1987 conquista la Coppa Italia Primavera. Abbandona la carriera di allenatore al termine della stagione 1996-’97.

Vanni Raineri
La mattina allenamento, poi il lavoro in via Sesto, la sera l’impegno politico in Consiglio comunale, il fine settimana la partita e poi a gestire la discoteca di famiglia. Si può ben comprendere se quando contattiamo Luciano Cesini per l’intervista lui risponde: «Meglio il primo pomeriggio, poi devo tagliare l’erba di casa». Si gode la meritatissima pensione il recordman di presenze nell’U. S. Cremonese, che ha lasciato troppo presto un calcio in cui non si ritrovava più.

Difficile mettere in pagina tutti gli aneddoti che ci racconta, e tanti altri ne avrebbe, servirebbe un libro. Anzi, sarebbe una bella idea che lo scrivesse lui, quel libro.

La gioventù nella squadra del paese, la Martelli di Piadena, l’arrivo alla Cremonese con l’esordio a 17 anni, l’addio al calcio giocato nel 1978 con la bellezza di 436 presenze (nessuno ha sin qui saputo eguagliare il suo record) poi la carriera di allenatore, sempre in grigiorosso, fino al 1997. Da 25 anni segue il calcio da tifoso, e pure la politica l’ha deluso, ma resta un osservatore attento che non perde la curiosità per tutto quanto succede.

Lei esordisce nella Cremo nel ’66, campionato che segna la retrocessione in D, uno dei momenti più bassi della storia dell’Usc. Poi il commissariamento di “Cielo” Cottarelli, l’avvento di Luzzara e l’immediata risalita in C.

«Arrivo a Cremona a 17 anni: dalla Seconda categoria al ritiro coi grandi allenati da Ravani. Con me arriva anche Mondonico: smetteremo anche lo stesso anno. Lui era quello di destra, io quello di sinistra. Alla prima di campionato col Treviso si infortunano i due terzini, Pietrobon e Bartolomei, e io che ero mediano esordisco in difesa. Dopo altre 6 partite mi fermo per una disfunzione cardiaca legata alle tonsille, e dopo l’operazione passa tutto».

Non lascerà più la difesa, col numero 2.

«Il presidente era Guido Maffezzoni, la squadra non era male; in precampionato battiamo il Brescia e altre big, ma poi tutto gira male. L’anno dopo arrivano Cottarelli e poi Luzzara, che non sapeva nulla di calcio e nemmeno di elettricità (di cui si occupava la sua azienda), ma aveva la forza di ammetterlo, sapeva affidarsi alle persone giuste e riusciva col suo sorriso a intrattenere ottimi rapporti con le persone. Però sapeva badare ai conti, e nei primi anni trovò il supporto giusto nell’Atalanta di Achille Bortolotti».

Il passaggio dei migliori era automatico: dalla Cremonese all’Atalanta e poi alla Juventus, a partire da Cabrini, Prandelli e Bodini.

«Mia papà gestiva la sala da ballo Astor a Piadena, e io lavoravo proprio nell’azienda di Luzzara in via Sesto. Da Bergamo arrivano gli allenatori, prima Moro poi Rota. Luzzara lavorava in ambito locale ma coi subappalti arrivava in tutta Italia. Addirittura nel giugno del 1969 mi chiama e mi dice: «All’Enel ho a che fare con uno che è del Pci come te», e così mi ritrovo a Monfalcone a provare gli impianti di una centrale a carbone. Per tre settimane abbiamo lavorato 10 ore al giorno più 5 il sabato. Dopo qualche anno le cose cambiano, la Cremonese sale di livello e la nuova alleanza è con la Sampdoria di Mantovani».

Lei era un difensore tosto ma correttissimo.

«Ho sempre improntato il mio rapporto con gli arbitri sulla correttezza, e se fai così capita che qualche volta lui chiuda un occhio. Anzi mi è capitato più volte che l’arbitro mi togliesse l’ammonizione dopo la partita».

Addirittura.

«Altroché. Le dico questa. Mio padre costruì la sala da ballo negli anni ’50, e a un certo punto aprì di fianco una pizzeria. Prende un pizzaiolo di Salerno, che risulta amico di un arbitro affermato della sua città, e così quando venivo ammonito lui lo chiamava e mi faceva togliere il cartellino. Io sono arrivato a 270 gare di fila senza un giallo. Fui espulso solo a Varese in serie B: marcavo Mariani, un’ala di valore, e ci fu fischiato un rigore contro. Io dico all’arbitro che è un disonesto, e mi becco il rosso e tre giornate di squalifica. L’unica altra squalifica la ottenni l’anno dopo con mister Galeone».

Galeone, personaggio controverso.

«Era un signore, con tecniche di allenamento innovative, aveva un feeling eccezionale coi noi giocatori ma non con Luzzara. Quando lo sostituì con Fortini facemmo due giorni di sciopero, la squadra andava male e così io, Chigioni e Cassago diciamo a Fortini che da allora in poi la formazione l’avremmo fatta noi. Alla fine ci siamo ripresi salvandoci».

Poi la decisione di smettere a soli 30 anni.

«Mister Settembrino aveva dato il via ad un rapporto fruttuoso col territorio bresciano che ci ha dato diversi talenti. Quando lui se ne va io e Mondonico smettiamo: lui allena Giovanissimi e Allievi, io la Primavera e faccio il vice di Vincenzi in prima squadra. Solo all’arrivo di Mazzia (che per la prima volta chiama un preparatore atletico) mi viene chiesto di scegliere, e io scelgo la Primavera, e come vice arriva Dino Busi. Quando Mondonico diventa allenatore, torno a ricoprire il doppio incarico, e la domenica vado a osservare le prossime avversarie. Mi ero iscritto anche a Biologia e mi servì per preparare gli allenamenti: capii che per un calciatore conta la resistenza alla velocità, non la velocità pura. In ritiro facevamo ben tre sedute al giorno. Poi i soldi finirono e grazie alla mia amicizia con un imprenditore sudtirolese (titolare della Duka oggi sponsor del Sudtirol) facemmo per tre anni il ritiro a Chiusa».

Tanti i giovani lanciati in grigiorosso.

«Il concetto era che ogni anno 2-3 elementi del settore giovanile andavano in prima squadra, lo pretendeva Erminio Favalli. Solo con Simoni le cose cambiarono, tanto che Turci giocò in porta ma solo perché glielo impose Favalli».

Per competenza, conoscenza, pacatezza, intelligenza e legame coi colori grigiorossi viene da pensare a Cesini in un ruolo come quello di Favini all’Atalanta. Perché non è avvenuto?

«Non avevo il patentino per allenare in A e in B: quando la Cremo retrocesse in C, se mi avessero offerto la panchina, avrei proseguito, ma i rapporti erano peggiorati. L’Atalanta scelse Favini per riportare in alto il settore giovanile, e lui con Prandelli alla Primavera ha allevato subito Tacchinardi, Morfeo e altri. La forza del nostro settore giovanile erano gli osservatori, grazie ai quali anticipavamo tutti, poi facevamo i provini a Cremona (Babo Nolli aveva grande intuito) e la società pagava tutto subito, grazie a Eraldo Ferraroni che seguiva il settore. Oggi uno come Tonali, da Lodi sarebbe arrivato a Cremona».

Nel 1997 la rottura.

«Nel ’97 Silipo è esonerato, arriva Sonetti e retrocediamo in C. Gli anni in serie A avevano svuotato le casse della società, non c’erano più soldi e Luzzara mi chiese di tagliare due squadre giovanili. Avevo appena centrato il 3° posto a Viareggio con Lucchini, Arcari, Castellini e gli altri, ma la Primavera in C non si poteva fare e così decisi di lasciare».

Lei ha allevato tanti campioni, a partire da Vialli, e vinto una Coppa Italia Primavera.

«Accadde nel 1987 con avversari top. Arrivammo alle finali grazie a un 7-1 col Torino, che non fu malcontento che portassimo via il posto alla Juventus...».

Il più forte giovane che ha allenato?

«Alessio Pirri: tecnica notevole, senso tattico eccezionale. In Nazionale era coi coetanei Totti e Morfeo, ma il fisico non lo ha accompagnato nella crescita. Poi è anche questione di testa».

L’allenatore migliore?

«Per la Cremo allenatore del secolo è stato nominato Simoni, ma lui era appoggiato da una società attrezzata. A Mondonico nessuno chiese nulla, e la serie A se l’è inventata lui. Poi certo c’era la competenza e la forza di Beppe Miglioli che teneva unito lo spogliatoio, ed Erminio Favalli con le sue conoscenze, tanto che la Cremo era amica di tutti. L’addio di Miglioli fu un duro colpo per Luzzara».

Parliamo un po’ della discoteca Astor.

«Mio papà era prigioniero in Inghilterra, torna nel ’46 e all’inizio degli anni ’50 organizza le prime feste per reduci. È un umile operaio, affitta un cortile e inaugura il “Giardino fiorito”, una balera all’aperto. Ci sono venuti tanti grandi cantanti, da Mina a Flo Sandon’s, da Natalino Otto a Gorni Kramer. Ma d’inverno non si poteva ballare, e fu la famiglia Nosari (quella del pastificio di Piadena) a garantire un prestito in banca, così costruì la sala da ballo. Prima degli spettacoli a casa mia sono passati Little Toni, Adriano Celentano, Orietta Berti, Massimo Ranieri, Patti Pravo, Iva Zanicchi e tanti altri: di tutti loro ho conosciuto la fragilità. E poi i gruppi come i New Trolls, i Nomadi, l’Equipe 84. Nel 1978 mio padre decide di smettere e io e mio fratello Mauro (morto da pochi giorni, ndr) decidiamo di gestirla. Abbiamo avuto Loredana Berté, i Rockets, anche uno spogliarello di Cicciolina in una coppa di champagne, ma io ero impegnato col calcio, e mia moglie aveva un lavoro a Canneto. Dopo un paio di anni la sala diventa discoteca e la clientela cambia, meno signorile: la musica è alta e inizia a girare droga, e cediamo l’attività».

Anche i funerali di suo fratello Mauro sabato sono stati civili.

«Siamo una famiglia laica di sinistra, tutta la mia famiglia ha avuto funerali civili. Provengo da un ambiente storico della sinistra: a Piadena c’è il Gruppo Padano, da cui nasce il Duo di Piadena (che poi erano di Torre), e poi la Lega di Cultura, figure come quelle di Giuseppe Morandi e Mario Lodi, ancora oggi ci sono i Giorni Cantati. Lega di Cultura e Gruppo Padano furono invitati al Festival di Spoleto del '64: nacque lì il Duo di Piadena. Ricordo che si fa una serata contro la guerra e viene cantata “O Gorizia tu sei maledetta”, canzone che vorrei si cantasse al mio funerale. Sul palco c’è anche Dario Fo, davanti a una platea borghese di destra con infiltrati giovani del Msi. È un caos, e da allora il Festival diventa celebre. La stessa Martelli fu fondata in quell’ambiente di sinistra, e che derby con la Folgore! Nello stesso bar c’erano la sede della Martelli, della Coop e del partito. Mio padre era presidente dei primi due e consigliere comunale, poi segretario del Circolo Pci. Mio fratello e io seguimmo la stessa strada, tanto che io sono stato consigliere comunale dal 1970 per 10 anni. Insomma la mia vita è sempre stata legata al mio paese, non avrei mai potuto andarmene».

Quando morì nella tragedia di Superga Danilo Martelli, lei aveva 6 mesi. Dopo di lei Piadena ha cresciuto anche Simone Guarneri e Alessandro Bastoni. Mica male per un paese.

«Vero. Martelli aveva parenti a Piadena e passava lì le sue estati. Quando il suo amico Borrini tornò dalla Cremonese fondò con altri amici comuni la società, e il nome non poteva che essere Martelli. Ricordo che nelle giovanili a fine partita ci lavavamo al bar in mezzo alla gente. Il nuovo sindaco, non potendosi permettere gli spogliatoi, fece arrivare la carrozza di un treno e ci lavavamo lì dentro».

Oggi Arvedi ha riportato la Cremo in alto, e investito nello stadio, nello splendido centro sportivo, e nel settore giovanile. Come mai dopo tanti anni non esce un giovane di alto livello?

«La mia conoscenza oggi è relativa, ma è cambiato il mercato, oggi gran parte dei vivai sono fatti da stranieri, quindi più che avere osservatori serve gente che gira il mondo: la dimensione del mercato è cambiata. Ai miei tempi avevamo meno risorse quindi allevare campioni in erba era una necessità».

Sul mercato l’arrivo di Braida ha portato sviluppi positivi. L’ha incrociato sul campo?

«La prima volta avvenne nel campionato 1975-’76 in C: il Monza vinse il campionato, noi arrivammo secondi. Poi andò a Parma ma gli venne preferito Ancelotti che allora era un centravanti. Non era molto rapido, e fu Liedholm ad arretrarlo, un po’ come avvenne poi per Pirlo che conosco bene. Io avrei voluto far compiere lo stesso percorso a Maspero, che però voleva fare il trequartista. Braida è una persona silenziosa, che non frequenta le tv. Credo che qualche volta potrebbe dare consigli a Pecchia, che è un grande allenatore ma qualche volta potrebbe essere più flessibile. Ad esempio lunedì a Crotone sarebbe stato meglio tenere lo 0-0 nel primo tempo, era facile immaginare che da Cosenza sarebbe arrivata la notizia della retrocessione dei nostri avversari, e nel secondo tempo avremmo potuto approfittarne».

Non possiamo concludere senza un pronostico. Andiamo in A?

«La gara con l’Ascoli sarà piena di insidie, ma sono fiducioso, le qualità non ci mancano».

Commenti