Pezzoni: «Questa è anche una guerra commerciale»



CRISI ENERGETICA • L’ex parlamentare mette nel mirino il potere affidato ai grandi gruppi e lo stallo sulle rinnovabili


Vanni Raineri
Tre settimane fa abbiamo intervistato Marco Pezzoni sul conflitto in corso in Ucraina, rimandando con lui il tema caldo delle risorse energetiche usate dal governo russo per fare leva sui governi europei. Rimediamo oggi, in queste ore in cui il ricatto in rubli di Putin è un tema caldo, approfittando della competenza in materia dell’ex parlamentare cremonese.

Dunque Pezzoni, Vladimir Putin vuole essere pagato in rubli, e il mondo industriale è in fibrillazione, come testimonia la recente presa di posizione di Confindustria. Siamo gas-dipendenti dalla Russia; dove abbiamo sbagliato?

«Per prima cosa stiamo vedendo che questa guerra non è solo militare ma è una vera e propria guerra geopolitica che va oltre l’Ucraina. È anche una guerra economico-commerciale: da un lato si cerca di limitare le ambizioni imperiali e l’aggressività di Putin in Ucraina con sanzioni dure, dall’altra c’è la sua ritorsione che non è solo basata sulla violenza militare e dei missili, cosa di per sé gravissima, ma sul fatto che lui ritiene di avere in mano la carta vincente, che è quella energetica. È quindi una guerra finanziaria ed energetica. Siccome l’energia si compra e si vende, Putin sta cercando di alzare il prezzo, per ottenere nel negoziato il massimo possibile, che consiste nell’ammorbidire l’intransigenza degli europei, degli Usa e della Nato. Quindi la partita del rubli non è solo una questione che riguarda la rivalutazione della moneta russa se questa venisse usata per l’acquisto del gas: ciò farebbe anche da contrappeso alle negatività che provocano a Mosca le sanzioni. Dove abbiamo sbagliato? Innanzitutto in modo sbrigativo indichiamo solo la parte conclusiva dell’analisi: siamo eccessivamente dipendenti dal gas russo, e questo errore è stato peggiorato negli ultimi 10-15 anni. Prima la nostra dipendenza dal gas russo era molto più bassa rispetto al 40% e passa di oggi».

Dunque, di chi la colpa?

«Le responsabilità sono chiare, e appartengono alla struttura del potere energetico che si è consolidato in Europa e in Italia, la quale ha troppo delegato la gestione del fabbisogno di fonti energetiche al colosso che risponde al nome di Eni. Il gruppo legato a Eni è composto da grandi compagnie che hanno avuto un peso determinante sulla politica italiana. La subalternità dei governi succedutisi ha dato loro troppo spazio e potere strategico; la sovranità italiana non è stata ceduta solo alla Russia ma anche ai grandi intermediari che con la Russia hanno fatto affari e spinto ad aumentare la dipendenza dell’Italia dal gas. Si è ceduto più a Eni che a Enel, che responsabilmente è riuscita in parte a emanciparsi al paradigma nucleare, comprendendo la sfida climatica della decarbonizzazione. Oggi si sfrutta la guerra per condizionare il premier Draghi, il ministro Cingolani e tutta la struttura industriale italiana a un ritorno al passato, un salto all’indietro. La guerra viene usata per rimettere in discussione la transizione energetica sotto la parola d’ordine della sicurezza, declinata come aumento delle spese militari e rilancio delle fonti tradizionali».

Lei ritiene dunque che qualcuno stia sfruttando l’emergenza.

«Il comportamento della Russia fa emergere chi siamo, ma le scelte politiche sono del nostro governo. Parlando di gas, la sicurezza non sta solo nella diversificazione dei fornitori ma anche delle fonti, mentre il governo procede solo con la prima. Il rischio è quello di tornare nella logica di rilancio permanente della dipendenza dal gas, una sorta di rivincita dell’Eni, facendo regredire sullo sfondo l’avanzata delle energie rinnovabili. Consideriamo che il gas ha bisogno di enormi infrastrutture concentrate in pochi centri di potere, mentre le rinnovabili sono un modello diffuso democratico, che non prevede il controllo dei grandi centri di gestione dell’energia. Pensiamo che la Snam sta valutando una rete nazionale di 2700 km per il trasporto dell’idrogeno che sarà prodotto dal Nord Africa e dal Medio Oriente: emerge una visione complessiva in cui stanno rivincendo le energie fossili sfruttando l’emergenza, ovvero le grandi infrastrutture che pensano di sfruttare i gasdotti. Si valuta anche di sfruttare i giacimenti del gas lasciati da Agip».

Sta di fatto che per le rinnovabili serve tempo, che la nostra industria oggi non ha. Che fare dunque oggi?

«La diversificazione dei fornitori è una legittima esigenza, ed è previsto il raddoppio della Tap col gas in arrivo dall’Azerbaijan».

Ricordiamo le proteste in merito ai lavori della Tap (il gasdotto Trans-Adriatico) in Puglia, che si dice oggi necessaria per diversificare le fonti. Ma si scorda che quel gas arriva dall’Azerbaijan, nazione amica della Russia…

«Certo, è così. Consideriamo che il raddoppio della Tap potrà avvenire in 4 anni, che già oggi importiamo gas dal Qatar, che sfruttiamo solo al 60% i nostri rigassificatori e potremmo salire in pochi mesi al 90%. Cingolani dice che in 30 mesi potremmo realizzare un rigassificatore galleggiante. Complessivamente, considerato che l’Italia ha enorme capacità di importazione, in pochi mesi potremmo ridurre la dipendenza dal gas russo di un terzo o un quarto, ma quella russa resta una quota indispensabile, e il nostro governo, che spinge sulle sanzioni, lo sa bene. Tutto ciò accade perché negli anni scorsi non abbiamo scelto la via delle energie rinnovabili. Pensiamo ai Comuni di Milano e Brescia che hanno delegato le politiche energetiche ad A2a, che risponde al mercato. Siamo noi a pagare il prezzo della struttura del potere energetico, che abbiamo lasciato prosperare a scapito degli interessi nazionali. Una scelta fatta dal governo italiano».

Parliamo di Europa. Si chiede una condivisione degli stoccaggi del gas, degli acquisti, di un tetto europeo del prezzo. Siamo pronti in Europa a una gestione comune o continueranno a prevalere i singoli vantaggi? Pensiamo ad esempio al gas degli Stati Uniti che arriva in Spagna e Portogallo poi si ferma in Francia che preferisce venderci l’energia nucleare.

«Stiamo assistendo a un compromesso al ribasso: prevale il vecchio modello, la guerra è l’occasione per tornare indietro. I governi guardano ai propri interessi più immediati, a cominciare dall’Ungheria che è molto dipendente dall’energia russa e guarda caso si smarca, e c’è anche una forte differenza nelle storie energetiche nazionali, il che fa emergere il compromesso: i soldi di tutti i cittadini europei per la transizione verde saranno finalizzati anche al gas e al nucleare. Una volta che al nucleare francese verrà riconosciuta una quota di finanziamenti “verdi”, alla Francia starà bene che gli altri continuino ad utilizzare il gas, perché anche lei ha bisogno di diversificare le sue fonti. L’Europa aveva individuato la strada giusta faticosamente con il Green New Deal, la transizione energetica doveva essere un modello diffuso ma l’Italia è indietro rispetto al Piano Energia e Clima (Pniec) previsto dall’Europa, e prevede ancora bassi investimenti sulle energie rinnovabili. Le più importanti associazioni ambientaliste come Greenpeace, Legambiente e Wwf hanno fatto appello al premier Mario Draghi, che parla addirittura di un ritorno al carbone, a favore delle rinnovabili, affinché si faccia una conferenza nazionale sull’energia».

ENERGIA E FORNITURE

in UE l’allarme dell’industria della lombardia
Mercoledì 30 e giovedì 31 marzo si è svolta a Bruxelles una missione del Consiglio di Presidenza di Confindustria Lombardia. La delegazione di Confindustria Lombardia (composta dal Presidente di Confindustria Lombardia Francesco Buzzella, dai Presidenti e dai Direttori delle Associazioni Territoriali lombarde e dai Presidenti dei Giovani Imprenditori e della Piccola Industria regionali) nel corso della missione ha incontrato, in coordinamento con la delegazione di Confindustria presso l’Ue, i rappresentanti delle istituzioni europee e gli europarlamentari lombardi. Al centro dell’agenda tutti i principali dossier che avranno impatto sulla competitività futura delle imprese lombarde ed italiane: la politica energetica e il Green Deal europeo, la politica industriale europea, le catene globali del valore, la programmazione dei fondi europei 2021-27 e l’impatto del Pnrr sul settore privato. Nel corso di tutti gli incontri istituzionali i vertici di Confindustria Lombardia hanno innanzitutto auspicato che tutte le forze diplomatiche in campo riportino nel più breve tempo possibile la pace in Ucraina. Nell’interlocuzione con i principali protagonisti della politica comunitaria, tra i quali Commissione Europea e Parlamento europeo, sono stati poi presentati alcuni punti strategici di lavoro per supportare il sistema imprenditoriale lombardo e il sistema Paese a fronteggiare la crisi in atto.

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