La difesa dell’ambiente entra nella Costituzione


Vanni Raineri

La novità è di estremo rilievo, ma l’impressione è che non abbia avuto l’eco che meritava. Parliamo della prima volta in cui viene modificato un articolo dei principi fondamentali della nostra Costituzione, introducendo la tutela degli animali e dell’ambiente nell’interesse delle future generazioni.
L’importante modifica è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 febbraio, e riguarda l’art. 9 della Costituzione (uno appunto dei 12 principi fondamentali) e l’art. 41. Non servirà alcun referendum confermativo, per il fatto che l’approvazione è avvenuta con una maggioranza superiore a quella dei due terzi sia al Senato che alla Camera. Più precisamente, i due rami del Parlamento avevano approvato il testo rispettivamente nel giugno e nell’ottobre del 2021 in prima deliberazione, e in seconda in novembre e l’8 febbraio 2022. C’è stata sì qualche astensione, ma complessivamente in Parlamento si è avuto un solo voto contrario.
L’art. 9 affermava: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Ora è stato aggiunto il comma 3, che recita: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.
Quanto alla modifica dell’art. 41, viene inserito il concetto che “l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno della salute e dell’ambiente”. Un concetto che forse fu dato per scontato dall’Assemblea Costituente, ma che oggi assume un richiamo di estrema attualità, tanto da consigliarne, a schiacciante maggioranza, l’inserimento nella Costituzione. Si tratta di due limiti (la difesa della salute e dell’ambiente) che si aggiungono a quelli già presenti relativi alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. L’art. 41 è stato poi arricchito dal terzo comma, col quale “si riserva alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica, sia pubblica che privata, ai fini sociali ed ambientali”.
Si tratta di modifiche in linea con la normativa europea, in particolare con la Carta di Nizza che si occupa della tutela dell’ambiente.
Non è che il tema ambiente non fosse già presente nella Costituzione. L’art. 117 menziona la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” nell’elenco delle materie di cui lo Stato ha legislazione esclusiva, ma è chiaro che le novità apportate quest’anno consentono di uscire da una visione antropocentrica dei principi fondamentali, dando vita a una nuova relazione tra la comunità e l’ambiente, risorsa non rinnovabile e da gestire nell’interesse delle future generazioni, nonché valore costituzionalmente protetto.
Quanto agli animali, è la prima volta che la Costituzione ne fa riferimento esplicito, anche in questo caso facendo seguito ad una sensibilità sul tema che è oggi molto più elevata rispetto al passato.
Anche per gli animali la modifica fa seguito all’orientamento della normativa europea, che nel Trattato sul funzionamento della Ue precisa che “l’Unione e gli Stati Membri devono, poiché gli animali sono esseri senzienti, porre attenzione totale alle necessità degli animali, sempre rispettando i provvedimenti amministrativi e legislativi degli Stati Membri relativi in particolare ai riti religiosi, tradizioni culturali ed eredità regionali”.
L’importanza di questa norma consiste nel riconoscere dignità agli animali che non vengono più considerati alla stregua di cose.
Un capitolo a parte meriterebbe l’attenzione data all’interesse delle future generazioni, anche qui una novità assoluta. A chi si chiede se l’Italia sia o meno pioniera nella tutela dell’ambiente in Costituzione, possiamo rispondere di no, sia a livello mondiale che in Europa: ben 21 Stati dell’Unione Europea già la prevedono.

pnrr
Rinnovabili: il mercato frenato dalla burocrazia

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede che entro il 2030 la produzione da fonti di energie rinnovabili soddisfi il 72% della generazione elettrica. Ma l’Italia è in grado di soddisfare tali aspettative? Sembra di no.
Oggi la produzione annua si attesta attorno ai 290mila GWh, dal che si deduce che la produzione da energie rinnovabili possa arrivare a quota 210mila GWh. Negli ultimi anni la percentuale è attorno al 38%, quindi servirebbe un incremento di oltre 100mila GWh, vale a dire un aumento del 91% rispetto alla produzione attuale. Una ricerca condotta da lavoce.info mostra come l’incremento medio annuo degli ultimi anni si attesti attorno al 2%, mentre per arrivare all’obiettivo servirebbe un incremento annuo del 9%. A rallentare tutto è la burocrazia, in quanto le richieste non mancano. Senonché per attivare un impianto è necessaria una valutazione di impatto ambientale che passa prima dal ministero poi dalla regione. Le istanze presentate (in particolare per impianti eolici e fotovoltaici) sarebbero anche sufficienti, ma dopo il via libera della regione serve la richiesta di connessione alla rete attraverso Terna. Ebbene, le richieste superano i target di nuova potenza da installare, ma le risposte si fanno attendere. Ad esempio dopo i primi mesi del 2022 il 92% delle richieste delle domande di valutazione di impatto ambientale per il fotovoltaico presentate in tutto il 2021 era ancora in attesa di risposta. Per le richieste del 2020 siamo all’80%, per quelle del 2019 al 48%. Per non parlare dell’eolico, dove i tempi sono ancora più lenti: il 79% delle richieste del 2019 non è ancora stato esaminato.
Dunque l’Italia che produce si muove, nel rispetto del Pnrr, ma il rilascio delle autorizzazioni è lentissimo. Semplificare il procedimento amministrativo sarebbe fondamentale, ma questo è un altro obiettivo del Pnrr.

Bocconi e Politecnico creano una Laurea Magistrale ad hoc

Anche la scuola, in particolare il mondo accademico, si muove in direzione della nuova sensibilità rispetto all’ambiente. Ne è prova il fatto che con il prossimo anno accademico, 2022-’23, partirà una laurea magistrale per formare i manager della sostenibilità che vede affiancate l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano. L’iniziativa è stata presentata nei giorni scorsi dai due rettori, e riguarderà inizialmente 50 studenti. Alla conferenza stampa, a significare l’importanza dell’evento, era presente, sia pure collegato in streaming, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, importanti imprenditori tra cui Andrea Illy e altri esponenti di spicco del mondo accademico.

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Le donne più sensibili al tema dei cambiamenti climatici

Cosa c’entra il genere con il cambiamento climatico? C’entra, c’entra. Almeno è quanto emerge da un report dell’Ocse, che ha fatto luce sulla disparità di genere accentuata dai cambiamenti climatici. Sembra che per le donne risultino più pronunciati fenomeni quali gli effetti negativi del riscaldamento globale, delle ondate di calore, della siccità, dell’aumento del livello del mare e di condizioni meteorologiche estreme. Secondo l’Ocse, nel mondo le morti premature dovute all’inquinamento dell’aria indoor, a fonti di acqua e servizi igienici non sicuri e alla mancanza di accesso all’igiene riguardano più donne che uomini. Gran parte degli studi sull’argomento mostrano come le donne subiscano impatti del cambiamento climatico maggiori degli uomini. Per esempio, per una donna, soprattutto se vive nei paesi in via di sviluppo, è più alta la probabilità di morire in seguito a un evento estremo, di soffrire peggioramenti più acuti della salute mentale, di essere soggetta a violenza domestica e avere minore sicurezza alimentare. Dato il diverso impatto per genere, è necessario raccogliere dati sull’effetto dei cambiamenti climatici che distinguano tra uomini e donne, e integrare una chiave di genere nelle policy ambientali.
In base ad alcuni sondaggi, inoltre, emerge che le donne hanno cambiato le proprie abitudini più degli uomini per contrastare i cambiamenti climatici e più facilmente degli uomini sono motivate a farlo.



Il punto è che nonostante ciò le donne rimangono sottorappresentate negli organi decisionali. In tutti i parlamenti europei sono meno del 50 per cento, con una media tra i paesi Ocse di poco superiore al 30 per cento. Se ci si limita ai ministeri nazionali che si occupano di ambiente e cambiamento climatico, nell’Unione Europea le donne sono meno di un terzo del totale. Il quadro non è certo già roseo (o rosa) nel settore privato, dove nei consigli di amministrazione la presenza femminile resta marginale.

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