CULTURA - Vittorio Caminiti ci ha aperto le porte e presentato il Museo del Bergamotto
FEDERICO PANI
REGGIO CALABRIA - C’è un filo rosso, anzi un profumo, che lega l’acqua di colonia, l’Earl Grey Tea e le famose caramelle di Nancy: è un agrume dalle piccole dimensioni, di colore giallo limone, caratterizzato da un picciolo leggermente alato. Del bergamotto non si conosce bene l’origine, ma è sicuro che la combinazione delle correnti marine e dei venti salmastri rendono la punta estrema della Calabria il luogo d’elezione per la sua coltivazione: in nessun altro luogo – fatte salve delle varietà ivoriane e californiane, che però sono meno pregiate – è riuscito ad attecchire così bene. Reggio Calabria, dunque, non è solo la città dei Bronzi di Riace, ma anche di questo frutto, a cui è stato dedicato un Museo nazionale: si trova non lontano dal Castello Aragonese, vicino a Corso Garibaldi, un rettifilo di circa 3 km, luogo di passeggiate e shopping dei reggini, parallelo al sontuoso Lungomare Falcomatà, che dà sullo Stretto. Nei locali del museo si scopre la storia degli impieghi cosmetici e, più recentemente, anche nutrizionali del frutto, così come del modo in cui, dal XVII secolo a oggi, è stato coltivato, lavorato ed esportato nel mondo. Della cura del Museo è responsabile l’Accademia del Bergamotto; racconta al Piccolo il presidente Vittorio Caminiti (nella foto): «L’Accademia nasce negli anni Novanta con lo scopo di promuovere il bergamotto fuori dai confini regionali; ci siamo subito resi conto che, nel mondo, il bergamotto era famoso e conosciuto e che l’unico posto in cui non era mai stato utilizzato come alimento era proprio la città di Reggio Calabria, dato che si trattava di un prodotto preziosissimo, destinato ai soli oli essenziali. Dell’Accademia del Bergamotto fanno parte scienziati, ricercatori, Premi Nobel, personaggi del mondo dell’arte, della cultura, del cinema e della gastronomia». Il museo nasce proprio con lo scopo di preservare e tramandare la storia e la tradizione della coltivazione del bergamotto. «Non credo che possa esistere nel mondo un frutto che si possa permettere un museo come questo - prosegue Caminiti -. Del resto, dietro la lavorazione del frutto, c’è una storia e un’antropologia che sono capaci di tenere uniti gli abitanti della nostra città».
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