Corada: «Serve fare i conti con la nostra storia»

Non basta difendere la carta
«IL 25 APRILE NON È UNA COSA PASSATA DA LASCIARE AGLI STORICI, LA COSTITUZIONE NON VA SOLO DIFESA MA VANNO ATTUATI I SUOI PRINCIPI»



VANNI RAINERI
Come ogni anno, all’avvicinarsi del 25 aprile iniziano le polemiche politiche, quest’anno rinfocolate dalla presenza di un governo di destra. Se poi un’alta carica dello Stato afferma che in via Rasella furono uccisi non nazisti ma un gruppo di musicisti semi pensionati... Corada, che ha pensato quando ha sentito la frase di La Russa?

«La prima reazione è stata di indignazione. La seconda, pur mantenendo l’indignazione, è stata quella di ringraziarlo, lui e la Meloni che in precedenza aveva detto un’enorme sciocchezza (le vittime delle Fosse Ardeatine furono uccise perché italiane, ndr). Non riescono a pronunciare certe parole. Li ringrazio perché sono parole che rivelano una profonda natura, non so quanto diffusa, espressioni spontanee che rivelano cosa ci sia nel profondo di persone oggi al potere.
È un bene perché si stava affermando il principio per cui queste cose fanno parte del passato, e i problemi dell’oggi sono diversi. Piuttosto è il silenzio assordante che preoccupa. Non è questione di paranoia: il fascismo non è alle porte, ma la preoccupazione è legittima.
Queste affermazioni rivelano che l’ignoranza non è una colpa finché non diventa arroganza e autoesaltazione. Posso pensare che molti giovani si possano fare influenzare. Sono così perché non sanno o è tale la loro convinzione da aver riscritto una storia tutta loro? Certo se ricopri cariche pubbliche non puoi esprimerti con superficialità. In quei tempi c’erano fascisti colti, ed era questo il dramma più grande: la cultura di per sé non salva. Dobbiamo ricordare che il primo presidente della Corte Costituzionale (Gaetano Azzariti, ndr) nel ’38 era presidente del tribunale della razza, e che dal ’46 al ’58 ci fu un’antiresistenza fatta da magistrati e prefetti che uscivano da quell’ambiente. Le cose che oggi spesso si definiscono come vulgata sono il risultato della storia e dello studio».

Dunque concorda col sindaco di Marzabotto che non vuole La Russa su quel palco il 25 aprile.
«Anche alla manifestazione di Milano dell’Anpi La Russa non è stato invitato dal presidente nazionale Pagliarulo che ha anche chiesto le sue dimissioni.

Le rifaccio la domanda fatta a Matteo Piloni la scorsa settimana. Sono passati 78 anni da quel 1945; quando crede che l’Italia potrà permetter- si di considerare storia eventi di quasi cent’anni fa?
«Negli altri paesi è accaduto, mentre l’Italia non ha ancora fatto i conti con la propria storia. Diventerà il momento di (quasi) tutti quando veramente faremo i conti con la nostra storia, non solo col fascismo, perché ci sono vicende, ad esempio legate al colonialismo di fine ‘800, che sono precedenti: il fascismo non fu una parentesi nella storia d’Italia come sosteneva Croce. Questo mentre il mito degli “italiani brava gente” continua a resistere. Giorgia Meloni ha affermato di festeggiare la Liberazione dai tedeschi, ma quello era un aspetto, poi c’era la dittatura fascista, e diverse stragi sono state fatte da fascisti e tedeschi assieme. Tornando alla domanda, il 25 sarà sempre divisivo finché la parte sbagliata non verrà riconosciuta tale. È vero che quest’anno il 25 aprile sarà particolare, ma deve mantenere un carattere gioioso, di festa, perché celebra la Liberazione, e c’è una confusione voluta tra libertà e Liberazione, che è stata fatta dal fascismo e dal nazismo, mentre la libertà l’hanno portata la fine della guerra e la Costituzione».

A proposito del principio per cui sono cose passate. Goffredo Buccini domenica sul Corriere della Sera ha scritto che potrebbe prevalere di nuovo lo sguardo al passato, grazie anche alle polemiche sulle frasi inadeguate citate, oppure lo sguardo in avanti: “Più che i fantasmi del battaglione Bozen dovrebbero preoccuparci i mercenari della brigata Wagner... Perché oggi il totalitarismo bussa alle porte dell’Europa. Da dove vengono i futuri e reali pericoli per la democrazia e la libertà riconquistate dopo la sciagurata parentesi fascista?”.

«Condivido in parte l’analisi. Quel che per me è sbagliato è dire che è cosa passata da lasciare agli sto- rici, che è la posizione più nobile tra quelle di chi si differenzia. Si afferma in pratica: “avete ragione, ma ora guardiamo oltre”. Ma per me è profondamente sbagliato, perché l’azione ha la sua premessa in quello che pensi e dici, è conseguenza di un’idea, di una teoria. Noi che ci ispiriamo ai valori di giustizia e libertà dobbiamo chiedere che i principi della Costituzione siano attuati, non dobbiamo solo difenderla. Ad esempio l’articolo 3 sugli ostacoli allo sviluppo: dove viene realizzato? La povertà diven- ta una colpa, l’inclusività è una forma di buonismo. Io non avevo più voglia di fare politica, ma mio padre mi diceva che è troppo comodo fare quel che vuoi nella vita: serve anche fare quel che non sempre ti piace, quindi trovo giusto fare la mia parte. Oggi l’Anpi non si limita alla rievocazione ma il suo intervento è più politico, nonostante sia slegata dai partiti, cui non vogliamo sostituirci. L’Anpi sta vivendo un vero boom soprattutto tra i giovani: a Milano siamo arrivati a 110 sezioni, a Cremona siamo saliti a 600 iscritti. Io vado spesso nelle scuole, e facciamo molte iniziative, come le ben 19 pietre di inciampo che abbiamo posto in un colpo solo a Cremona».

Perché la Germania ha saputo fare i conti con la storia?
«Là prevalse lo choc fino al ’58, ma avevano fatto la scelta del Patto Atlantico, e dagli anni ’60 è stata capace di fare un’analisi impietosa, isolando i gruppi estremisti soprattutto dell’Est (nati come reazione alla Ddr). Anche la Francia, dove dopo la guerra furono fucilate 6000 persone (ma erano gollisti, mentre da noi il nucleo forte della Resistenza era comunista), ha fatto i conti con la sua storia, al contrario dell’Italia e anche del Giappone. La presenza qui di un Pci forte ha contribuito (“piuttosto che i comunisti...”), ma era un alibi che oggi non c’è più».

C’è una cosa che Corada si propone di fare.
«Bolzano aveva 7 “sottocampi”, tra cui quello di Dobbiaco, dove furono imprigionati diversi cremonesi, tra cui mio padre, che erano stati insieme sulle montagne del Piacentino. Era un campo di 500 persone, non un campo di sterminio ma di prigionia, gestito dalle SS, e lì si moriva. Mio padre era lì poiché era nella redazione del giornale dei partigiani. Io vi sono stato diverse volte, una volta con lui, ma lì oggi non esiste nemmeno una lapide o una croce che ricordi quel passato tragico. Chiesi perché al sindaco che mi rispose di aver solo sentito dell’esistenza di quel campo. Fortunatamente abbiamo tutti i documenti che ne testimoniano l’esistenza, e il mio prossimo impegno sarà quello di far posare una lapide o una croce a memoria».

Ha lasciato il Pd nel 2016. Cosa pensa del nuovo corso?
«Sono andato a votare alle primarie per Elly Schlein. Ero incerto, ora attendo di vedere il corso delle cose. Lasciai per il giudizio critico sul referendum: all’inizio, per poco, avevo creduto alla volontà di Renzi di cambiare le cose, poi ho esteso la mia critica a una politica che non mi sembrava in linea coi valori della Costituzione. Oggi il Pd è odiato dalla gente: ha governato per anni, ed è difficile dall’opposizione chiedere alla maggioranza di fare cose che lo stesso Pd non ha saputo fare negli anni di governo. Io mi sento sempre all’interno di una cultura di sinistra, ma come tanti altri non mi ritrovo in un partito e mi adopero al di fuori. Trovo però che, più che tra destra e sinistra, l’equivoco più grande sia tra riformismo e moderatismo, che non è mai stato un concetto politico fino al Risorgimento. Oggi si dicono tutti riformisti, ma il termine nacque dalla contesa con la parte rivoluzionaria, alla nascita dei sindacati. Si differenziava dai rivoluzionari del massimalismo, ma oggi il termine è usato come sinonimo di moderati, però non è mai stato così: prevede una radicalità nell’operare che è negata a chi si definisce riformista. Spesso il significato delle parole è travisato».

Lei è stato presidente della Provincia e sindaco di Cremona. Perché non sappiamo risolvere i problemi strutturali che ci frenano?
«Anche oggi c’è una sottovalutazione di questa parte della Lombardia, anche perché poco abitata e poco influente rispetto ad altre. Il tema principale è quello dei collegamenti, soprattutto ferroviari. La linea Cremona-Piacenza è elettrificata ma non trasporta più passeggeri, la Freccia della Versilia è stata eliminata, e l’ordinario non viene affrontato. A metà ‘800 tra Piacenza e Cremona c’era il tram, tolto negli anni ’30 per fare questa ferrovia. Al territorio non bastano violini e agricoltura».

Lei lavorò molto al gemellaggio con la spagnola Alaquàs, che ancora oggi (lo abbiamo ricordato tempo fa su questo giornale) conserva ricordi concreti di un legame che da noi è praticamente scomparso. Perché quando cambiano gli amministratori spesso si cancellano le eredità ricevute?
«Non so dire se ci sia una ragione. Io misi l’anima nell’allestire quelle mostre, come nell’acquisizione di Santa Monica, ma non vorrei sembrasse una critica, e vorrei evitare l’autocelebrazione. Il gemellaggio con Alaquàs nacque col sindaco Bodini scoprendo che veniva da quella città un governatore spagnolo di Cremona, che si era fatto fare un grande quadro con la sua genealogia conservato in un ristorante di Corte de’ Frati oggi chiuso. Credo però che l’occasione persa di maggior rilievo fu un’altra: ci fu offerto un palazzo a Cuba da utilizzare come vetrina per la produzione cremonese. Anche la Camera di Commercio era d’accordo, poi la questione con Cuba divenne politica, e oggi quel palazzo è in mani tedesche».

L’ultimo suo libro, presentato recentemente alla Casa della Cultura a Milano, si intitola “Maometto filosofo. Illuminismo ed Islam”. La cultura islamica è ritenuta spesso retrograda banalizzando la figura di Maometto. Lei sottolinea gli aspetti “illuminati” della cultura islamica che hanno favorito la laicità anche in Europa.
«Chiusa l’attività politica e quella di insegnamento, mentre tenevo alcuni seminari alla Statale approfondii l’illuminismo del ‘700, e mi accorsi che in tutti i grandi autori il tema dell’Islam era centrale. La prima parte del libro riassume l’approccio della cultura occidentale nei confronti dell’Islam fino al ‘700, e l’immagine, tra le tante sfumature, è prevalentemente negativa. Invece gli illuministi, da Voltaire a Rousseau e altri, avevano in gran parte una visione negativa dal punto di vista politico, ma positiva a livello filosofico-religioso, perché vedevano quella religione più vicina a quella che ritenevano la vera (il deismo), non contemplando l’Islam la Trinità, i miracoli, il concetto di Cristo figlio di Dio eccetera. Da lì nacquero critiche agli illuministi e una discussione paradossale per cui l’Islam ha favorito l’avanzare di alcune idee di tolleranza nella nostra cultura prima assenti. È un libro in cui ho messo tanto di mio, comprese le centinaia di libri che mi sono letto per prepararlo».

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