«Mia figlia non tornerà: aiutatemi ad avere giustizia»


ESCLUSIVA • Raccogliamo nella sua abitazione di Capralba il grido disperato di Laura Pirri, madre di una delle vittime della strage di Pioltello 




di Enrico Galletti

Andava a lavorare in treno a Milano, Alessandra, e sua madre Laura aspettava la sua chiamata ogni giorno. Era in apprensione, da quando Alessandra, 39 anni, la più grande di due figlie, le aveva raccontato che la vita sui treni era difficile, che in metro spesso accadevano cose orribili, che quello che insieme, la sera, durante la cena, sentivano al telegiornale era tutto vero. Così ogni giorno, prima di entrare in ufficio, si senti- vano. “Mamma, tutto ok”. «Ecco, bastava una frase - ci racconta Laura Pirri stando seduta sulla poltrona del soggiorno di casa sua, a Capralba, bastava una rassicurazione per cominciare la giornata nel modo giusto». Giovedì scorso, però, la telefonata di Alessandra alla sua mamma ha assunto un’altra piega. Laura ne parla con una forza disarmante, di fronte alle telecamere che in questi giorni provano a dar voce al suo messaggio di speranza. Impiegata, la vita scandita dalle cose semplici: il lavoro, la riservatezza, il legame forte con gli affetti più cari, Alessandra Pirri, 39 anni, il 25 gennaio era sul treno dei pendolari partito da Cremona, che a Pioltello si è schiantato senza darle scampo. Ma il destino le ha dato il tempo per potersi rendere conto di tutto: il treno fuori dai binari, la sua vita fuori controllo. Lo schianto, le urla. La morte su quei binari
che stavano per essere riparati. E nei momenti concitati che hanno preceduto la strage ha fatto quello che faceva ogni giorno: ha chiamato sua madre. L’ha chiamata per chiederle aiuto, quel giorno, mentre il treno deragliava. Poche parole e un grido disperato: “Mamma aiuto, il treno va fuori dai binari”. Poi il silenzio. «Io e mio marito siamo corsi subito sul luogo dell’impatto temendo il peggio e sperando di sbagliare», ad aspettare la conta dei feriti, di chi se l’è cavata e di chi invece non ce l’ha fatta. Per Laura, l’impegno delle forze dell’ordine è stato eccellente. «I vigili del fuoco e i soccorritori si sono fatti in quattro per strappare i feriti dalla morte. Hanno fatto un lavoro eccellente». Qualche attimo di esitazione e i ricordi di quell’ultimo giorno: ci vuole tempo per capire che Alessandra non arriverà più, che occorrerà cercare altrove un corpo martoriato: «L’ho rivista all’obitorio, mia figlia», dice Laura, occhi bassi e una sottile lacrima che le attraversa il volto. E mentre ci guarda ci chiede di non lasciarla sola. Ci implora, con gli occhi bassi e la voce flebile, di lottare per la sua stessa causa: quella della richiesta di giustizia. «Nessuno mi ridarà più la mia bambina. L’unica speranza che mi resta è che venga fatta giustizia, che tutto quello che è successo quel giorno venga approfondito, studiato, che non si lasci niente al caso».
La voce fioca si fa vigorosa al pensiero che la disgrazia sarebbe potuta essere anche peggiore: «Nel senso opposto, a calcare i binari, ogni giorno ci sono i ragazzi che vanno a scuola. Se a schiantarsi fosse stato il treno verso Crema, che cosa sarebbe successo?». La pausa di qualche secondo, il silenzio che si fa intenso. «La strage degli innocenti, ecco che cosa sarebbe successo». Lo sfogo che precede un momento di debolezza. «Alessandra non amava apparire, se fosse qua mi rimprovererebbe. Ma noi non vogliamo che si smetta di parlare di lei, che ci si stanchi di parlare delle vittime di quella strage. Serve conoscere la verità, non ci interessa che si parli di risarcimenti». Lo sfogo che prova ad arginare i ricordi, indelebili, del dramma. «Non si può morire sul treno - mormora a bassa voce Laura con lo sguardo perso nel vuoto -. Non si può. Aiutatemi a chiedere giustizia».
Quattro giorni dalla strage. La nebbia che lascia solo intravedere i contorni di Capralba, di quella casa mimetizzata da qualche bicicletta e dagli alberi che fanno capolino sulla strada. Lì dove il tempo si è fermato, crudele, assestando con violenza quell’ultimo colpo.




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