GRANDI DIMENTICATI • La sua famiglia possedeva a Ferrara una farmacia e una tipografia. Dai libri d’arte ai romanzi
Alessandro Zontini
Federico Zeri, uno dei più grandi storici dell’arte italiani, amava molto polemizzare specie contro la tragica situazione culturale imperante in Italia (Zeri è mancato nel 1998 e, quindi, è lecito domandarsi che cosa avrebbe articolato oggi attesa l’attuale situazione che ha ampiamente varcato i confini del tragicomico).
Tra le celebri invettive dello studioso quella legata alla proliferazione di premi letterari. Zeri aveva individuato, lungo tutta la Penisola, l’istituzione di circa 1500 premi letterari all’anno: oltre tre capolavori al giorno. Chi se li ricorda?
Si trova, attualmente, in vendita (anche in qualche supermercato) un libercolo con qualche ambizione e pretesa di valore storico ma così raffazzonato e dal contenuto talmente approssimativo (oltre che connotato da numerosi errori) che non è dato capire perché possa avere il successo che gli viene tributato. Sugli scaffali delle librerie si trova anche un altro “best-seller”, l’ultima “fatica” di un celebre giornalista. Un altro acclarato esempio di approssimazione marchiana e superficialità da lasciar sbalorditi. “Eppure vendono… il che significa che fanno schifo”. Chiosa un intelligente libraio, seppur contro il proprio evidente interesse (quantomeno economico).
E’, dunque, comprensibile il dubbio che, legittimamente, si manifesta: gli autori devono cimentarsi in un tipo di produzione di basso livello solo perché un elaborato dai contenuti e dalla scrittura elevati non incontrerebbe il favore di un pubblico rozzo e di una critica mediamente troppo incolta per comprendere un capolavoro?
Una proliferazione di “libri orrendi”, tanto per utilizzare le parole di Federico Zeri. Ovviamente a scapito della qualità.
Infatti l’Italia è il paese che ha permesso che Guido Morselli si uccidesse, totalmente dimenticato e senza aver visto la pubblicazione di uno solo dei suoi libri, oppure che aveva “dimenticato in un cassetto” il manoscritto del Gattopardo.
E’ importante, pertanto, sorvolando sulla mediocrità anche troppo drammaticamente imperante del nostro tempo, recuperare quegli autori le cui opere, connotate da notevole lirismo ed ardito stile letterario sono state, per i più disparati motivi, scordate e giacciono in un ingeneroso oblio.
Il nome di Federico Zeri, come un potente magnete, non può idealmente non “attrarre” gli importanti studi di qualche eccelso storico dell’arte tra i tanti che si sono occupati del rilevante patrimonio artistico italiano ed il cui lavoro è stato apprezzato anche dallo studioso romano.
Alberto Neppi, nato nel 1890 a Ferrara e mancato ai vivi nel 1965 nella stessa città estense, venne destinato dai propri genitori a studi rigorosamente scientifici: si laureò, infatti, in Chimica a Bologna e lavorò per qualche tempo nella farmacia di famiglia prima di essere arruolato dal Regio esercito.
Dopo aver partecipato alla Prima Guerra Mondiale come ufficiale farmacista-sanitario, Alberto Neppi si dedicò alle sue vere passioni: la letteratura, l’arte e l’editoria.
La famiglia Neppi era proprietaria di una piccola tipografia nel centro storico di Ferrara. Alberto, con gran piglio imprenditoriale, avviò da quella tipografia una propria casa editrice, la “Casa editrice Taddei”, che diede alle stampe un considerevole numero di volumi di autori destinati, in parte, ad essere dimenticati e, in parte, ad assurgere all’Olimpio degli imperituri.
Il solo citare la “Taddei” non può non rievocare a chi, anche solo marginalmente, “frequenta” il mondo della poesia futurista, le magnifiche, coloratissime, copertine di “Poesie scelte”, “Poesie elettriche” e “La santa verde” di Corrado Govoni.
Altri celebri autori, le cui opere sono state stampate dalla casa editrice ferrarese, furono Diego Valeri, Jolanda Bencivenni e, soprattutto, Filippo De Pisis.
Parte della produzione della “Casa editrice Taddei” venne dedicata a “grandi” dell’arte. Lo stesso Alberto Neppi scrisse un gran numero di manuali dedicati ad insigni pittori di ogni epoca: Cosmè Tura, Mantegna, Tranquillo Cremona ed altri.
Rapito dal “sacro fuoco” della scrittura, Alberto Neppi, i cui manualetti dedicati alla pittura incontrarono notevole successo, scrisse anche vari romanzi che, viceversa, grande successo non ebbero (peraltro molto ingiustamente): “Aquila bianca” (1920), “Riflessi di broccato (1922) e il singolare “Giorgio Pareschi”. Di questo romanzo sono note due edizioni: quella del 1923 (presente presso la Biblioteca “Gabriele D’Annunzio” di Pescara e la Biblioteca comunale Manfrediana di Faenza) e la versione del 1929 di cui è nota la sola copia conservata presso la Biblioteca dell’Accademia delle scienze di Torino.
Il romanzo di Neppi è un curioso volume che racchiude elementi di carattere storico, passaggi intimisti e, anche, una trama “gialla” (nell’accezione comune utilizzata per i romanzi polizieschi).
A qualcuno potrà sembrare una “copia” di “Piccolo mondo antico” (del 1895), il capolavoro di Antonio Fogazzaro che, come “sfondo”, ha le vicende patriottiche risorgimentali e che narra le vicissitudini degli sposi Franco, dal piglio marcatamente patriottico, e Luisa, di indole razionalista, le cui vite vengono sconvolte dal dramma per la perdita dell’adorata figlioletta. Ma non si tratta affatto di una copia.
“Giorgio Pareschi”, ambientato in una Ferrara di cui si riconoscono perfettamente strade, monumenti, cortili, angiporti, palazzi e chiese (e certe descrizioni non possono non riecheggiare alcuni passaggi narrativi di quel Giorgio Bassani cui, par di scorgere, le descrizioni “cittadine” di Alberto Neppi hanno regalato qualche magnifica suggestione), ha precisi riferimenti storici (le campagne militari contro l’Austria, il “voltafaccia” di Pio IX, il maresciallo Haynau, comandante delle forze austriache nel Veneto, che costrinse i veneziani alla resa, l’auspicio che Napoleone possa giovare all’indipendenza dell’Italia, Garibaldi (che non indossa mai la camicia rossa), “quel volpone di Cavour”, la presa di Varese da parte dei “cacciatori” sabaudi.
Il romanzo ha, quali protagonisti, Giorgio e Rita (lui moderatamente patriottico e lei razionalista), oltreché una miriade di personaggi perfettamente contraddistinti da abile ed inusuale capacità descrittiva.
Il “giallo” che si dipana lungo buona parte del romanzo è l’occasione che consente a Neppi di deliziare il lettore con argute e pittoriche descrizioni, quasi come se la capacità figurativa di Francesco del Cossa, Cosmè Tura ed Ercole de’ Roberti (tutti, ovviamente, ferraresi) avessero consegnato all’autore le proprie peculiari capacità raffigurative.
Giorgio è accusato dell’assassinio di Solimani, nobile ferrarese trovato morto e, a lungo, languisce nelle carceri cittadine prima di affrontare il processo che lo vede imputato.
Ed è proprio nelle pagine dedicate al processo che si possono individuare alcuni tra i migliori momenti lirici del romanzo: “Subito lo colpì la massa granitica del popolo che sì accalcava in fondo, dietro la ringhiera di legno, tutti in piedi a capo scoperto, pettinature da ragazze accanto a crani lucidi di vecchioni, chiome brune di artigiani e pannocchie arsicce di contadini”. E ancora: “C’erano anche alcuni campioni del foro che discutevano animatamente; intorno si raccoglievano i novellini per imparare ed assentire col capo, ingozzando in silenzio i chicchi della sapienza brizzolata”.
Mirabile la figura dell’avvocato Carassiti, trascurato nell’abbigliamento (“Quell’orsaccio unto e bisunto? Bah, che schifo d’uomo!”, chiosa la madre di Giorgio) ma di grande potenza espressiva nella sua arringa e nelle fasi processuali: “Prima di ribattere gli argomenti del procuratore egli assalì con acredine, melata d’ironia, il castello di carta dell’istruttoria, fondato non pure sull’arena, che sarebbe stata una base sufficiente alla levità di quella compagine, ma addirittura sopra una garza di schiuma”.
L’ingiustamente accusato Giorgio viene assolto e, solo alla fine del romanzo, Alberto Neppi svelerà l’identità dell’assassino di Solimani, con un guizzo narrativo al limite del “bizzarro”.
Un grande libro ove tutto è curato minuziosamente: la carta, i caratteri, la qualità della stampa, l’impaginazione, la bellissima ed evocativa copertina policroma di Totani con una sola “sbavatura”: l’indicazione della pagina, tra la 159 e la 161, è curiosamente “106”. Probabilmente un vezzo e non un errore di un romanzo fin troppo perfetto e, crudelmente, dimenticato.
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