CORONAVIRUS • L’iniziativa è di un locale di Asola. Il titolare: «Basta una convenzione coi clienti»
Vanni Raineri
“Ristorante aperto a pranzo”. Sulle prime si pensa a un’allucinazione, poi si legge il post ed è tutto vero. C’è un ristorante, ad Asola, a ridosso della provincia di Cremona, che pubblica su Facebook l’opportunità di pranzare normalmente al suo interno, senza infrangere le regole del Dpcm. Si tratta del ristorante-pizzeria “4Strade”.
Nella prima settimana della zona rossa, il “4Strade” faceva solo asporto o consegna a domicilio, come gran parte dei ristoranti lombardi. Poi, lunedì di questa settimana, è comparso sulla pagina Facebook un avviso: “Ristorante aperto a pranzo solo con convenzione”. Sopra il seguente testo: #rispettiamoleregole. Novità dal nuovo Dpcm! Il nostro ristorante può accogliere a pranzo tutti gli operai di aziende o chi è in possesso di partita Iva che abbia stipulato un contratto scritto per il pranzo di lavoro. Basta poco… per passare la pausa pranzo in tranquillità e in un locale riscaldato”.
Il locale in questione è dotato di grande spazio e diversi posti a sedere, con la possibilità dunque di garantire il corretto distanziamento. Ma il problema che si pone è: può davvero un ristorante situato in zona rossa aprire a pranzo per far sedere i clienti?
Cosa prevede precisamente il Dpcm sia per le zone rosse che per le arancioni? Ecco cosa recita il dispositivo testualmente: “sono sospese le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) ad esclusione delle mense e del catering continuativo su base contrattuale a condizione che vengano rispettati i protocolli o le linee guida diretti a prevenire il contagio”. E’ la “scappatoia”: il ristorante potrebbe tenere aperto se si trasformasse in un servizio di mensa.
Abbiamo sentito uno dei titolari del “4Strade”, che pare un caso unico. «Quando è uscito il Dpcm che ha chiuso i ristoranti - ci dice - ero disperato. Ho già molti dipendenti in cassa integrazione. Allora mi sono messo a studiarmi il decreto. Ho visto che Conte ha lasciato aperte le mense, allora mi sono subito attivato e con il nostro commercialista ho aggiunto il codice Ateco che permette di fare servizio mensa. Ho speso soldi per fare questa modifica, in un momento difficile. Ma questo mi ha aiutato a sopravvivere. Se poi i miei colleghi pensano solo a lamentarsi della situazione e degli aiuti che non arrivano... io sono riuscito a sopravvivere così»
Chi può venire nel suo locale? «I dipendenti di aziende che stipulano un contratto/convenzione con noi, ma anche le singole partite Iva, ad esempio chi è proprietario della propria ditta può entrare. I singoli no, non li posso accogliere. Il contratto deve essere continuativo, durare ad esempio dieci giorni. Non pesto i piedi a nessuno: di mense, in zona, ce ne sono pochissime, se non zero».
Prima? «Vedevo la gente che lavorava e che si accampava sui camion a mangiare. Che vita è? La gente che lavora ha diritto a un pasto caldo. Noi facevamo l’asporto, inizialmente andava alla grande. Poi basta: la gente ha cominciato ad avere paura e ha smesso di ordinare. Non capisco nemmeno perché ci abbiano chiuso: abbiamo fatto salti mortali per distanziare i tavoli, sanificare, organizzare le monoporzioni... se non fosse diventata una mensa il mio locale sarebbe morto».
Aiuti? «Quelli che dovevano arrivare entro il 20 non sono ancora arrivati. Ma io non li aspetto. Ho capito che dobbiamo camminare sulle nostre gambe. Siamo una famiglia numerosa, ho tenuto due o tre dipendenti, gli altri li ho dovuti mettere in cassa integrazione.
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