L’automobile è femmina Lo decise D’Annunzio

LIBRI E DINTORNI • In contrasto con Marinetti che usava il maschile. Ne parla il filmdel 2021 “Il cattivo poeta”, che però lascia perplessi

Alessandro Zontini
Uscito nel 2021 e già distribuito sui comodi supporti DVD o Blu-ray, il film “Il cattivo poeta” diretto dal regista Gianluca Jodice, dedicato agli ultimi periodi di vita del Vate, si rivela un’operazione riuscita solo parzialmente. In particolare, i personaggi storici che emergono dalla pellicola risultano tragicamente stonati e poco credibili. Sia il “Cattivo Poeta” che il giovane federale di Brescia, Giovanni Comini, che Luisa Baccara, che Benito Mussolini che Achille Starace sono ridotti a strane parodie dei personaggi che furono, frutto di una valutazione storiografica poco aderente e piuttosto sbiadita. In particolare, spiace vedere Gabriele D’Annunzio, interpretato da un Sergio Castellitto, molto ben truccato a perfetta somiglianza del Vate, ma inadeguato ad impersonare “l’orbo veggente” che da colosso della storia del Novecento viene ridotto a macchietta umoristica e a personaggio grottesco. Evidentemente la personalità dell’autore dell’“Alcyone” è talmente complessa e caleidoscopica da sfuggire a qualsiasi incasellamento cinematografico. Non fa eccezione, ad esempio, anche il film “D’Annunzio” di Sergio Nasca, (1987), interpretato da Robert Powell e da Stefania Sandrelli cui pure aveva offerto un proprio contributo, quale consulente storico, il troppo poco celebrato Piero Chiara. Innegabile che “Il cattivo poeta” offra una molto ben curata ricostruzione dei costumi, delle ambientazioni e di altri dettagli storici ed è davvero molto bella la fotografia. Ma è un po’ poco per promuovere un film che lascia davvero perplessi seppur non manchi di qualche spunto interessante, specie per quanto riguarda l’aneddotica. In particolare, fatto non molto noto, dalla pellicola emerge come fu proprio Gabriele D’Annunzio a “trasformare” l’automobile da mezzo di genere maschile ad affascinante emblema di femminilità e grazia. Ciò in piena antitesi polemica con F. T. Marinetti. Il fondatore del Futurismo, benestante giovane nella vivace Parigi del primo decennio del Novecento, scorrazzando impunemente con una della prime autovetture per le rues di Parigi, trasse ispirazione artistico-letteraria dal potente dinamismo del proprio veicolo e scrisse “La ville Charnelle”, libro apparso anche in Italia alcuni anni dopo con il titolo “Lussuria velocità”. Corredato dalla bella copertina di Achille Funi, Marinetti declina il proprio amore per l’automobile, moderno mostro tonante che, quasi, quale nuovo cavallo mitologico alato, corre verso la modernità ed il dinamismo. L’afflato di Marinetti è quello recuperato dal potente rombo e dallo sbuffo dei treni a vapore della fine dell’Ottocento che tanto meravigliava gli uomini dell’epoca e, in egual misura, mutatis mutandis, ritorna nella fascinazione delle potenti moto dalla grossa cilindrata della cultura post bellica che vende l’acme nell’opera di Robert Pirsig “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” (1974). “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita” tuonava Marinetti, rimarcando come l’automobile fosse sostantivo di genere maschile. Peraltro il fascino per il mondo dei motori, paradigma e precipuo topos del futurismo, aveva avuto una significativa anticipazione nell’opera di Mario Morasso. Quest’ultimo, dopo un esordio da poeta simbolista, anticipava di un soffio la pulsione e passione meccanica di Marinetti nel suo celebre “La nuova arma (la macchina)” (1905), tra le cui pagine rifulge l’avvisaglia di un nuovo mondo dominato dall’affascinante potenza del mezzo meccanico e delle macchine in generale e nel suo meno noto, ma ugualmente straordinario, “La nuova guerra” (1914) che, non meno del precedente, esalta la bellezza sfavillante dei nuovi mezzi meccanici delle guerre future, quali carri armati, cannoni, sottomarini, magnificandone quel lato romantico che si dissolverà immediatamente dopo i primi momenti della Grande guerra che divamperà in Europa tra il 1914 ed il 1918 flagellando intere generazioni del Vecchio Continente.
L’interesse per l’automobile divampava celermente e alcuni tra i più grandi autori non mancavano di esaltarne il dinamismo meccanico, il rombo tuonante ed il dinamico fascino. Impossibile non citare il romanzo “522” di Massimo Bontempelli (1932) ove ben si coniugano l’esaltazione per la tecnologia ed il dinamismo dell’automobile con momenti di proto-pubblicità proprio per la “522”, veicolo realizzato all’epoca dalla Fiat (cfr. “Il Piccolo” del 26 settembre 2020). D’obbligo, anche, il richiamo al celebre “Forse che sì, forse che no” di Gabriele D’Annunzio (1910), romanzo nel quale i due protagonisti Paolo e Isabella tradiscono più di un qualche semplice coinvolgimento per i nuovi mezzi meccanici, quali macchine ed aeroplani, denotando una passione eccentrica rispetto agli interessi della borghesia dell’epoca e più vicina al gusto futurista, quasi anticipando l’interesse delle masse. Quel- le stesse masse che, oggi, accor- rono a vedere le grandi corse automobilistiche e i Gran prix di Formula 1. Gabriele D’Annunzio, con intervento geniale, coglie non solo il lato fascinosamente meccanico dell’automobile ma, anche, il suo aspetto graziosamente muliebre, iniziando a chiamarla “LA” automobile e non più “IL” automobile, come era stato fino a quel momento. Ovviamente, stante l’accesa rivalità tra il Vate e Marinetti, quest’ultimo si accaniva con pervicacia nel chiamare l’automobile “IL automobile” dando origine ad un’interessante contrapposizione che vede dividersi letterati e vari autori. Anche la letteratura c.d. popolare, nell’arco temporale compreso tra le due guerre, si divideva sul punto. Esplorando tra i bei romanzi popolari della collana “Il romanzo mensile” proposti dal “Corriere della sera”, si rinvengono diversi interessanti episodi. Ne “L’automobile nero” di Harris Burland del giugno 1920 (due sole copie note nelle biblioteche di Varese e presso la Biblioteca Cameriniana di Piazzola sul Brenta), le vicende dei due amanti, protagonisti della storia, si intersecano con quelle del mezzo color nero declinato al maschile. Nel successivo “Patente d’automobilista” di Marcel Denis e Francelois del marzo 1930, invece, le corse frenetiche avvengono a bordo di una Tuledo da turismo, vettura che viene declinata al femminile così come l’automobile padronale sulla quale sale la bella signorina “Cecilia dalle guance così morbide che vien voglia di morderle” che fa capolino ne “L’introvabile autobus” del settembre 1929 (una sola copia nota per entrambi i romanzi, sempre a Piazzola sul Brenta). Se la storia della letteratura abbia dato ragione a D’Annunzio o a Marinetti è cosa fin troppo nota. L’automobile è, oramai, voce al femminile. E per volere di un uomo. Resta, infine, da chiedersi come la donna vedesse il nuovo mezzo. Tamara de Lempicka, alla guida della sua Bugatti, campeggia sulle copertine di molti cataloghi e libri nel suo celebre autoritratto del 1929. Per la pittrice, forse e molto più pragmaticamente, l’automobile non era nè maschile nè femminile ma solo un mezzo neutro ma essenziale per l’emancipazione della donna nel primo Novecento.

 

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